Vladimir Putin (foto LaPresse)

Russia first

Micol Flammini

Un esperto ci dice che l’espansionismo di Putin inizia a costare troppo, e i russi si lamentano

Roma. Non si poteva pensare che la Russia rimanesse per sempre la Russia isolata, arroccata nella sua storia, amante del kalashnikov, nemica dell’occidente e disposta a offrire i propri figli alla patria, all’esercito e alle guerre. Le guerre costano, l’esercito anche e la patria la si può onorare anche attraverso riforme che facciano bene all’economia. I russi vogliono diventare più ricchi, hanno avuto la Crimea, sanno che la loro nazione ha di nuovo un peso internazionale notevole, ma ora è il momento di pensare alla Russia. Denis Volkov, sociologo del Levada center, istituto di sondaggi fondato nel 1987 a Mosca e poco amato dal Cremlino, spiega al Foglio che i russi, da un paio di anni a questa parte, non condividono più le decisioni in politica estera del governo, che vorrebbero vedere più concentrato sull’agenda interna. Putin gode ancora di grande consenso, anche se in calo dopo l’annuncio della riforma delle pensioni, i russi continuano a essergli grati per aver reso di nuovo il paese una grande potenza “ma credono sia arrivato il momento di affrontare le preoccupazioni socioeconomiche”. E’ un mutamento culturale importante, gli elettori chiedono a Putin di lasciar perdere la Siria, di abbandonare le minacce agli altri paesi e di concentrarsi sui problemi di una nazione enorme, piena di risorse e di diseguaglianze, dove oltre il 13 per cento della popolazione vive sotto il livello di povertà.

  

Il prezzo dell’espansionismo è un problema che riguarda anche altri paesi. In Iran i cittadini scioperano contro la decisione del governo di spendere il denaro pubblico per finanziare guerre e gruppi come Hamas e Hezbollah contro Israele, chiedono di lasciare la Siria e di pensare a loro, al popolo iraniano. Nella Russia ancora in preda all’ubriacatura da Mondiale, la reazione è più pacata, non ci sono proteste per le strade, scioperi e slogan urlati sotto le mura del Cremlino, ma il mantra che l’opinione pubblica ha in testa è lo stesso: prima i russi. “La gente vuole che la Russia esca dall’isolamento, ma se questo vuol dire spendere di più in politica estera, allora è disposta a vivere in una nazione isolata”, dice Volkov. Questo è il senso del summit di Helsinki, dove si incontreranno i due capi di stato più imprevedibili del pianeta. La Russia per il momento non sta dando molta importanza all’incontro, si lascia corteggiare e dal Cremlino escono dichiarazioni pacate. E’ difficile percepire l’entusiasmo ora, il vertice avverrà il giorno successivo alla finale dei Mondiali e Putin salterà da un palcoscenico all’altro. Tutto calcolato. “Non accadrà molto, ma anche un cenno, una parola può essere importante – prosegue il sociologo – I russi non vogliono diventare amici degli americani, ma se si può evitare di essere nemici è meglio”.

A ben vedere qualche aspettativa, seppur sommessa c’è, i russi sperano che i rapporti migliorino. Perché una relazione meno tesa con Washington significa anche cooperazione in Siria, accordi per il petrolio e rimozione delle sanzioni. Bisogna considerare un elemento caratteriale, quasi una nota di colore, che fa sì che i russi non possano mostrarsi entusiasti: “La gente si aspetta che siano gli Stati Uniti a fare il primo passo, quindi Putin non si sbilancia, osserva se c’è margine di manovra”, attende. L’attendismo del Cremlino, che si ritroverà protagonista quasi indiscusso di uno show tra il politico e il pop, forse potrebbe celare anche una mancanza di strategia. Finora Putin ha riscosso molto successo grazie alla politica estera e adesso si trova a dover soddisfare una popolazione che gli rimprovera di spendere “troppo per aiutare gli altri paesi e vorrebbe che gli stessi soldi venissero spesi per la popolazione”.

 

Questo è anche uno dei princìpi che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca e in questo momento americani e russi chiedono ai loro presidenti la stessa cosa. Dietro all’incontro tra Trump e Putin quindi si nascondono due ideologie di fondo: quella dell’“America first” e quella del “Russia first”, che chissà, potrebbero anche favorire la distensione tra i due paesi. “Tra Mosca e Washington c’è un conflitto – conferma Volkov – ma non c’è più la volontà di odiarsi a ogni costo”, se odiarsi vuol dire spendere il denaro pubblico in guerre che impoveriscono la popolazione. Ai russi interessa il rispetto internazionale, per anni lo hanno perseguito con bombe e mostrine, recentemente con i troll, ma sanno che alla base di ogni grande potenza, più che le armi c’è l’economia. Prima i russi, il resto è maquillage.

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