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Il lavoro non si crea per decreto

Elsa Fornero

L’economia è complessità, contro la precarietà la faciloneria non basta. L’impazienza politica trascura che lo sguardo di breve termine produce danni nel lungo periodo

Nulla è più adatto del mercato del lavoro a far comprendere la complessità in economia – e pertanto la pericolosa faciloneria della pretesa, molto diffusa nelle file della maggioranza di governo – di conoscere a tavolino la soluzione di ogni problema economico. L’opinione pubblica ritiene in generale molto complessi i mercati finanziari i quali, a ben vedere, sono luoghi (non necessariamente fisici) dove si scambiano essenzialmente promesse di pagamento, pur complicate a piacere. Gli scambi che avvengono nel mercato del lavoro, per contro, riguardano servizi delle persone e non toccano soltanto aspetti economici (la retribuzione e le condizioni di lavoro) ma diritti fondamentali (per esempio la non discriminazione, il diritto alla sicurezza), aspetti sociali (il riconoscimento del lavoro come valore fondante della società, e perciò costituzionale), aspetti psicologici (la considerazione sociale, la spinta a essere competitivi piuttosto che cooperativi, la mortificazione delle competenze, il mobbing, ecc.). Ebbene, il dilemma riproposto in questi giorni di discussione del “decreto dignità” è il seguente: che cosa serve di più al mercato del lavoro per una sua migliore performance (che, tradotta in indicatori e numeri, vuol dire maggiore occupazione, contratti più stabili, produttività del lavoro più elevata e salari anch’essi più elevati)? 

 

Quanto importanti le “regole” fissate dal legislatore, posto che nessun mercato è perfetto e quello del lavoro lo è molto meno di altri? E tali regole devono guardare più alla tutela del lavoratore che non alla convenienza economica del datore di lavoro, con il rischio che questo “si stufi” e porti all’estero la sua impresa, giacché nel mondo globale esiste sempre un luogo dove si può produrre a costi inferiori? Oppure hanno ragione quelli che sostengono che le regole in definitiva contano poco o punto mentre il fattore dominante è la domanda “aggregata”, cioè la domanda per consumi, investimenti, esportazioni e spesa pubblica? 

  

Le regole hanno scarsa efficacia se non cambiano, in modi virtuosi, i comportamenti di lavoratori, imprese e anche istituzioni (come i centri per l’impiego e gli apparati burocratici che controllano l’assolvimento dei doveri, per esempio in materia di sicurezza e di contributi sociali). Al tempo stesso, l’espansione della domanda richiede in generale politiche fiscali espansive (riduzione di tassazione e/o aumento di spesa pubblica) che però possono diventare proibitive in condizioni di debito pubblico elevato, con possibilità che i mercati lo giudichino insostenibile e costringano a brusche frenate, come capitò nel 2011, quando per frenare la continua crescita della spesa per interessi fu necessario intervenire su altre voci di spesa, in particolare su quella previdenziale.

 

Come se le complessità sin qui illustrate non bastassero, esiste anche una fondamentale dimensione temporale, ossia l’intreccio di effetti di breve e di medio periodo. L’impazienza generale, e quella politica in particolare, trascura il fatto che i primi non solo risultano modesti ma spesso risultano anche di segno opposto a quelli di medio-lungo periodo: il desiderio di ridurre oggi la precarietà, in sé condivisibile, può trasformarsi nella difficoltà di mantenere i posti di lavoro domani. Il gusto di sbandierare la discontinuità, di disfare ciò che i governi precedenti hanno fatto, può facilmente condurre a non prendere in considerazione i verosimili effetti negativi del futuro. Questo schiacciamento sul presente porta ad attendersi risultati immediati per cui gli effetti negativi di breve periodo diventano subito la prova del fallimento delle riforme e l’occasione per rinnegarle in favore di nuove “miracolistiche” ricette, che segnano cambiamenti “storici”. Successe a me, ministro del Lavoro del governo Monti, con la riforma del 2012, ripudiata fin dalle prime settimane della sua applicazione per meri motivi politici. E, paradossalmente, rivalutata proprio dal “decreto dignità” che ad essa si è ispirata per quanto riguarda la regolamentazione dei contratti a termine rispetto alla maggiore flessibilità introdotta dal decreto Poletti.

 

Il possibile senso di “rivincita” di un ex ministro non ha però alcuna importanza. E' invece importante sottolineare come il decreto dignità sembri essere nato dalla volontà di cancellare, e in fretta, almeno una parte del Jobs Act, per sventolarne lo scalpo presso l’elettorato: e parallelamente di scaricare prima sulla Ragioneria Generale e poi sull’Inps il dato sulla verosimile contrazione dell’occupazione, mentre non è affatto stravagante ritenere che una minore flessibilità porti a una riduzione (peraltro limitata nelle stime) dei posti di lavoro.

 

Al mercato del lavoro fa male il tentativo di asservire le regole non al suo migliore funzionamento, ma a obiettivi partitici di breve termine. Ci si dimentica la lezione di Angela Merkel, che non ripudiò mai le riforme “socialiste” di Hartz ma anzi le valorizzò, essendone premiata dai risultati occupazionali (basso livello della disoccupazione, con quella giovanile sostanzialmente allineata a quella media) e anche da quelli elettorali.

 

La storia economica italiana degli ultimi decenni può essere vista come l’oscillazione di un pendolo, prima verso una maggiore flessibilità, che si ritiene sia positiva per le imprese e quindi favorevole a investimenti e alla domanda di lavoro, e poi all’indietro verso una maggiore sicurezza a favore dei lavoratori. La “flexicurity” è la ricetta che cerca di combinare in modo equilibrato i due obiettivi, ma non ha dosi fisse e ha dimostrato di funzionare bene soltanto in paesi piccoli e maggiormente coesi dal punto di vista sociale, come la Danimarca e in generale i paesi del nord Europa. In Italia, purtroppo, le regole flessibili non hanno consentito di superare il tradizionale dualismo del mercato del lavoro, finendo per scaricarsi nella maggiore precarietà dell’occupazione dei giovani e delle donne, anche per l’efficacia, tradizionalmente scarsa, delle “politiche attive” basate sui “centri per l’impiego” (non basta una riscrittura delle regole per farli funzionare). Di fronte a questa complessità, il decreto dignità non configura affatto una svolta storica ma un passo indietro che certo non supera il dilemma tra “buone regole” e “spinta alla domanda”. Quest’ultima è rinviata all’appuntamento molto spinoso della prossima legge di bilancio, in autunno. Per preparare la quale ci vorrà molta più umiltà di quella fin qui mostrata dal ministro del Lavoro e dall’esecutivo tutto.

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