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Il nocciolo d'Europa rischia di fondersi per le ritrosie tedesche

Renzo Rosati

Per il Wall Street Journal i Pigs (e la politica italiana) non fanno più paura. Ma scricchiola l'intesa Macron-Merkel

Roma. “Comprate Pigs”, cioè Portogallo, Italia, Spagna e Grecia, suggerisce il Wall Street Journal. “Hanno messo i conti a posto, vantano ottime performance azionarie e obbligazionarie e sono l’oceano blu per investitori che temono il rallentamento degli Stati Uniti e di altre aree del mondo”. Paesi mediterranei e iberici “non più malati d’Europa ma economie dinamiche in cambiamento”? L’indice Ftse Mib della borsa ha guadagnato dal 2 gennaio a ieri l’8,2 per cento, recuperando velocemente il calo dopo il risultato del 4 marzo; una volta verificato, magari, che i vincitori potrebbero non avere vinto. Piazza Affari è prossima ai massimi del 2015, in coincidenza con l’uscita dalla crisi, mentre lo spread Btp-Bund, 123 punti, è ai minimi da un anno. In attesa del ritorno sui mercati della Grecia, Spagna e Portogallo fanno meglio quanto a titoli di stato (spettacolare la discesa portoghese che ha ridotto di un terzo il differenziale dalla Germania), offrendo buoni rendimenti medi del 2-3 per cento compensata da un’analoga crescita del Pil.

   

Ieri il Fondo monetario internazionale ha migliorato anche le stime per l’Italia, rivedendo il pil all’1,5 per cento nel 2018 e all’1,1 il prossimo anno: più ottimista della Banca d’Italia, il Fondo monetario internazionale mette però in guardia su debito e futuro governo. Egualmente sul fronte bancario continua a ridursi la massa di Non performing loans: sono scesi di 62 miliardi rispetto al picco del 2015, e Intesa annuncia la vendita di altri 10,8 miliardi, a valori di mercato. Se però il sud Europa mostra di cavarsela meglio, è il centro del continente che desta le preoccupazioni maggiori. Il tradizionale motore franco-tedesco è in grippaggio: la popolarità di Emmanuel Macron non riesce a superare il 20 per cento, rispetto al 44 di impopolarità (era al 21 a luglio 2017) e a un 36 per cento di francesi ancora attendisti (erano il 64). Il bombardamento in Siria a fianco degli Stati Uniti non pare avergli giovato: è stato smentito proprio da Donald Trump che conferma il ritiro delle truppe americane, sulle quali ovviamente comanda lui. Ma parlando ieri al Parlamento di Strasburgo il presidente francese si è lamentato soprattutto dell’Europa e delle sue divisioni paventando “una guerra civile europea”. In realtà è appunto Berlino l’interlocutore che è venuto a mancare a Parigi: Angela Merkel è in frenata su tutti i fronti, dal bilancio comune alla nuova governance che doveva innovare i trattati. Il Financial Times scandaglia “i timori dei conservatori tedeschi per i progetti di Macron, specie sulle messa in comune di fondi per le assicurazioni dei depositi bancari, ma anche i partner di coalizione socialdemocratici ironizzano sulla ‘nuova alba per l’Europa’ promessa tempo fa dall’Eliseo e dalla cancelleria”. I problemi non sono solo qui.

  

Il Macroeconomic policy institute di Düsseldorf vede addirittura il rischio di una recessione tedesca, “rischio in un mese considerevolmente aumentato rispetto allo scenario precedente di un rallentamento fisiologico della crescita”. L’indice Zew delle aspettative economiche è sceso a meno 8,2 punti ad aprile, il minimo dal 2012, rispetto al più 5,1 di marzo. Contrazione dovuta ai timori di protezionismo in un paese che ha basato sul massimo sfruttamento dei fattori esterni – acquisti di debito della Banca centrale europea ed export – la messa in ordine dei conti. Ma con i socialdemocratici al governo la pressione per aumenti salariali si fa più forte, in assenza però di nuove riforme per produttività e welfare, mentre né le banche (a cominciare da Deutsche Bank) né i big dell’auto (Volkswagen in testa) se la passano bene. La Germania è quindi presa dalla tentazione di chiudersi nella fortezza e alzare i ponti levatoi. Non solo con il sud e con la Francia macroniana, ma anche con il nuovo asse rigorista olandese-baltico, pronto per esempio a sbarrare la strada a Jens Weidmann alla presidenza della Bce; e con i governi del gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) sempre più filotrumpiani.

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