L'industria chiama. I giovani non rispondono

Marianna Rizzini

I posti di lavoro liberi, il sindacato e i giovani intrappolati in Masterchef. Una storia dal Nordest

Roma. Un sindacato “nuovo” dei “giovani e dei precari”: era stato evocato, come suggestione non soltanto provocatoria, in ambienti accademici e politici (e nel Pd renziano) nell’autunno di tre anni fa, quando, al momento del primo incontro-non incontro Matteo Renzi-Susanna Camusso, e in concomitanza con uno sciopero generale, ci si era trovati di fronte alla rappresentazione plastica della incomunicabilità tra una visione “sindacalmente corretta” e una visione “sindacalmente scorretta” dello stesso problema. Problema a più teste: mercato del lavoro, disoccupazione, contratti atipici, flessibilità, formazione, scuola e università. E mentre ci si guardava per così dire in cagnesco dagli antipodi – di qua la Leopolda, di là la Cgil – c’era chi faceva notare che l’incancrenirsi in ruoli opposti (“potere forte” e “potere debole”) rendeva impossibile anche soltanto pensare a un “sindacato” che rappresentasse davvero i non-rappresentati: giovani, precari e outsider, sì, ma da garantire in modo non concertativo, magari categoria per categoria, individuo per individuo. Si parlava (come oggi) di precarietà da un lato e sclerotizzazione burocratica dall’altro.

 

Non si parlava ancora così tanto del Tar, quello che ieri Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera, descriveva come l’attore che, a proposito di numero chiuso all’università, rimanda a una “tradizione nazionale” in linea con il “patto che ha rovinato la scuola”. E tutto riporta lì: al demone collettivo della “flessibilità”, da un lato, e all’ingessamento burocratico di un settore riformato magari parzialmente dall’altro (vedi la riforma dei musei, dove il Tar rispunta dietro alla vicenda di Eike Schmidt, direttore degli Uffizi che, dopo lo stop del tribunale amministrativo alle nomine di alcuni direttori stranieri a capo di alcuni musei italiani, ha annunciato la decisione di tornarsene a Vienna, amareggiato per “il freno” alla riforma).

 

E mentre risuona il “no” al numero chiuso negli atenei, nel Nordest ci sono imprenditori che, sul tema “occupazione e formazione”, scoprono che non sempre basta dire “lancio un bando” per veder accorrere i giovani. Anzi. Capita che un bando per 200 percorsi di formazione professionale retribuiti nell’industria riceva tiepidissima accoglienza, raccogliendo soltanto 100 candidati. Lo ha raccontato, in due pubblici interventi (il 24 agosto e il 1 settembre) Maria Cristina Piovesana, presidente di Unindustria Treviso che, interpellata dal Foglio, parla prima di tutto della necessità di “abbattere il pregiudizio negativo” che “evidentemente oggi esiste nei confronti del lavoro in fabbrica, percepito, anche quando riguarda posizioni altamente qualificate – ingegneri, impiegati – come meno attraente rispetto ad altre professioni più ‘mediatiche’”. Dice Piovesana che “l’idea era nata proprio leggendo i dati sulla disoccupazione: possibile, ci siamo chiesti come imprenditori e come genitori, che non si possa fare nulla?”.

  

Da lì il bando e l’autocritica iniziale: “Forse non abbiamo comunicato bene la nostra proposta, ci siamo detti vedendo che la pubblicità via carta stampata non era servita ad attrarre candidati. Ma se neppure la successiva diffusione via social network è servita, forse il problema è un altro, visto che molte imprese continuano a segnalare difficoltà a trovare giovani disposti a investire su un percorso professionale nell’industria – che pure si conferma centrale nel rilancio dell’economia e del lavoro. Come imprenditori ci siamo quindi dati il compito di raccontare la storia di quello che è oggi la manifattura italiana, un settore in cui ci sono molte opportunità di crescita, anche nel campo delle vendite all’estero, e garanzie e tutele inesistenti nella rappresentazione televisiva di alcune professioni di moda, dove per esempio i giovani aspiranti cuochi vengono maltrattati in modo inimmaginabile in qualsiasi azienda industriale. E ci piacerebbe parlarne serenamente con sindacati, associazioni e istituzioni”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.