Bocciare non serve, ok. Ma a scuola la vera tragedia è abolire il merito

Rosamaria Bitetti

Bisogna dimostrare agli alunni che studiare serve davvero. Ma il mondo del lavoro sa utilizzare il talento?

Roma. In un paese in cui la meritocrazia si predica ma non si pratica, l’idea di abolire la bocciatura per scuole medie ed elementari ha generato reazioni molto forti. Non è irragionevole, visto lo stato in cui versa la scuola italiana: risultati sistematicamente inferiori alla media nei test PISA (Programma per la Valutazione Internazionale dell’Allievo), altissimi livelli di esclusione educativa, il secondo peggior paese OCSE per neets, giovani che non studiano e non lavorano. Ricordo spesso la frase sprezzante con cui un mio docente universitario bocciò il candidato che mi precedeva: “Lei non deve chiedersi come mai non passa questo esame, deve chiedersi come ha fatto a ottenere la licenza elementare”. Ora che sono dall’altra parte, anche confrontandomi con colleghi di altri atenei, è per me palese l’eterogeneità degli studenti universitari: alcuni sono talmente bravi che potrebbero lavorare il giorno dopo, e il loro datore di lavoro sarebbe fortunato. Ad altri mancano le più basilari capacità di formulare un testo, di elaborare relazioni casuali, di comprendere relazioni fra variabili: com’è possibile che entrambi i gruppi siano il prodotto dello stesso sistema educativo, magari con gli stessi voti?

 

Che la scuola italiana abbia un serio problema di merito e selezione è evidente, ma non è detto che la bocciatura per elementari e medie sia lo strumento migliore. Francesco Cancellato, dalle colonne de Linkiesta, ci invita a “riporre l’ideologia nella fondina” e guardare i dati. In Italia si boccia sempre meno, ma si boccia più che negli altri paesi europei. Evidentemente la bocciatura, unita a un sistema di voti fortemente soggettivo, non basta a offrire i giusti incentivi a studiare di più. Alla luce di una meta-analisi della letteratura scientifica in merito, l’OCSE suggerisce che la bocciatura nei cicli primari non migliora le performance degli studenti e aumenta le probabilità che non continuino i propri studi – e nel nostro paese la dispersione scolastica è ben più alta della media europea. In uno studio del 2011, inoltre, stima che la bocciatura nei primi gradi dell’istruzione aumenta il costo del sistema scolastico italiano fra il 5 e il 10%, una cifra non irrisoria, di fronte a benefici dubbi.

 

La scuola italiana funziona bene, benissimo a volte, per chi è già motivato, ma non riesce a garantire risultati per chi non è motivato, o per qualsiasi motivo è incapace di ottenere obiettivi minimi, venga fermato e riportato al livello degli altri. Su questo ha influito una pedagogia post-sessantottina e falso-buonista, la retorica del “cerchiamo di aiutarli”, di cui i ragazzi, mettendo le loro doti strategiche al servizio della naturale distrazione, hanno presto imparato ad approfittare. Ma anche, più di recente, la lotta per le iscrizioni: con più docenti da assumere che studenti da istruire, gli istituti tendono a competere al ribasso per attrarre i ragazzi. D’altra parte una concorrenza senza parametri esterni rischia di trasformarsi in concorrenza al ribasso: infatti il vero problema dell’ultima (ennesima) riforma della scuola non è tanto l’abolizione della bocciatura nelle scuole elementari e medie, ma quella degli INVALSI. Test standardizzati faticosamente inseriti nel nostro sistema educativo contro le proteste dei docenti, che permettono di misurare e comparare i risultati degli studenti – e, cosa più importante, dei loro insegnanti – con un metro di giudizio uniforme. Poiché misura l’operato delle scuole, le costringe a competere al rialzo.

 

Ma per cosa dovrebbero competere gli studenti? In Human Capital (1994), il premio Nobel Gary Becker spiega, con Nigel Tomes, che l’istruzione può essere vista come un qualsiasi investimento, e la sua entità è influenzata dal budget (che non è poi così rilevante in un sistema di istruzione pubblica come quello italiano) e dal ritorno atteso di questo investimento. Le persone studiano di più e meglio se questo studio porta loro risultati: purtroppo l’Italia è un paese con scarso ritorno all’investimento educativo, in cui una laurea non è troppo difficile da ottenere, ma è anche poco utile. Infatti il livello di overqualification, ovvero di disallineamento fra quello che si è studiato e il lavoro che si ottiene, è molto elevato, anche per le professioni scientifiche. Non è solo che la scuola non forma lavoratori abbastanza bravi: è che il nostro sistema produttivo di lavoratori altamente qualificati spesso non sa che farne, e ricercatori con un dottorato finiscono nei call center. Ma se una riforma della scuola, da sola, non può cambiare il tessuto produttivo del paese per generare una maggiore domanda di laureati, può comunque puntare a migliorare la qualità del capitale umano che produce ristrutturando incentivi migliori al suo interno. Se il feticcio delle bocciature nei primi anni di scuola si può superare, bisogna però dare un incentivo a far tutto per bene. Una delle possibili soluzioni è quella di incanalare gli studenti verso gli istituti secondari sulla base della loro performance – misurata con test standardizzati, oltre che passerelle e correttivi. Come avviene in paesi con performance educative migliori della nostra, gli studenti sarebbero incentivati a studiare di più non da una blanda minaccia di essere bocciati, ma dalla carota dell’accesso a una scuola secondaria migliore (ça va sans dire, dovremmo superare anche l’accesso indiscriminato all’università, mentre di recente il Tar ha bocciato l’istituzione del numero chiuso per le università umanistiche). Una scelta classista? Controintuitivamente, no. In uno studio del 2007, Checchi e Flabbi comparano Italia e Germania, dimostrando che la maggiore autonomia di studenti e famiglie nello scegliere la scuola superiore si traduce in un minore livello di mobilità educativa fra generazioni: gli studenti, insomma, “ereditano” il livello di istruzione, e di conseguenza il futuro reddito, della classe sociale in cui sono nati.

 

Insomma, la scuola italiana ha bisogno di strutturare meglio i suoi incentivi: abolire la bocciatura non è necessariamente una tragedia, ma abolire il merito lo è.

Di più su questi argomenti: