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Ecco perché la teoria di una ripresa "jobless" non regge la prova dei numeri

Marco Fortis

Aumentano sia gli occupati (918 mila dal 2014) sia le persone in cerca di lavoro. Finalmente il mercato non è più ingessato. Ma mancano moderne competenze

La ripresa dell’occupazione in Italia procede incessante di pari passo con quella dell’economia (prodotto interno lordo, produzione industriale, fatturato dei servizi, consumi, investimenti, esportazioni, tutti in crescita oltre le previsioni). E anche a luglio 2017 – dati Istat – il mercato del lavoro ha messo a segno la creazione di 59 mila posti in più. È vero che i dati destagionalizzati mensili, molto irregolari, indicano nello stesso tempo un aumento di due decimali del tasso di disoccupazione totale all’11,3 per cento, conseguenza della crescita tra giugno e luglio di 61 mila persone in cerca di occupazione. Ma questo dato origina da un calo ancor più cospicuo del numero degli inattivi: meno 115 mila. Più nitide da interpretare sono le statistiche tendenziali. Rispetto a luglio 2016, a luglio di quest’anno vi sono 294 mila occupati in più, ben 322 mila inattivi in meno e ciò nonostante anche 17 mila disoccupati in meno: il tasso di disoccupazione è conseguentemente diminuito dello 0,2 per cento pur a fronte di un grande numero di persone che sono uscite dall’area dell’inattività.

 

Forse questi dati ormai costantemente positivi da mesi metteranno fine al lungo tormentone della presunta ripresa “jobless”, una tesi sostenuta recentemente anche da alcuni preparati commentatori (nell’ultima settimana, per esempio, da Dario Di Vico sul Corriere della Sera e da Massimo Giannini su Repubblica).

 

Una tesi, quella della ripresa “jobless”, smentita anche da una recente analisi di Stefania Tomasini di Prometeia (“Il mercato del lavoro italiano a dieci anni dalla crisi”, 2 agosto 2017). L’analisi di Prometeia mette in evidenza i problemi occupazionali ancora aperti, soprattutto la persistente debolezza del mercato del lavoro nel Mezzogiorno rispetto al centro-nord. Ma dimostra soprattutto in modo inequivocabile che durante questa fase – dal quarto trimestre 2014 in poi – la nostra occupazione è cresciuta molto di più dell’economia rispetto ai cicli storici precedenti di ripresa (1982, 1993, 2009). Infatti, in base a una simulazione comparata, effettuata a otto trimestri dalla ripartenza dell’economia, mai la reattività dell’occupazione era stata così forte in Italia come questa volta. Ovvero, come precisa la Tomasini, “l’elasticità dell’occupazione al reddito è aumentata. Tra il 2014 e il 2016, infatti, a fronte di un aumento del pil del 2,4 per cento le unità di lavoro sono cresciute del 2,6 per cento, gli occupati del 2,3 per cento. Una elasticità intorno all’unità è eccezionale se rapportata a quanto avveniva in passato”. “Però – aggiunge l’autrice – la riduzione della disoccupazione non è stata altrettanto veloce. Il motivo è che le migliorate prospettive di lavoro hanno portato sul mercato persone precedentemente scoraggiate, in altre parole si è ridotta l’inattività ed è aumentata l’offerta di lavoro. Anche di questo fenomeno può essere colto l’aspetto positivo, dato il ben noto ritardo italiano nella partecipazione al mercato del lavoro, particolarmente fra le donne”.

 

  

In sostanza, ci troviamo di fronte esattamente all’opposto di una ripresa “jobless”. Del resto, i numeri dell’Istat sono ormai chiari. Rispetto al febbraio 2014 nel periodo successivo fino a luglio 2017 sono stati creati 918 mila posti di lavoro, di cui 704 mila durante i “1000 giorni” del governo Renzi e 214 mila durante il governo Gentiloni. Afferma l’Istat nel suo comunicato stampa diffuso ieri: “Negli ultimi due mesi il numero di occupati ha superato il livello di 23 milioni di unità, soglia oltrepassata solo nel 2008, prima dell’inizio della lunga crisi”.

In qualunque altro paese si brinderebbe per una notizia simile, ma, si sa, siamo in Italia.

 

Va altresì osservato che negli ultimi tre anni e mezzo, sempre rispetto a febbraio 2014, il numero degli occupati dipendenti a tempo indeterminato è cresciuto di ben 565 mila ed è ormai arrivato a sole 44 mila unità dal riguadagnare il massimo storico toccato nell’agosto 2008. Un indubbio successo di politica economica. Ne conviene anche Prometeia che scrive nella sua nota: “Hanno certamente contribuito anche gli incentivi fiscali, in particolare la decontribuzione per i nuovi assunti a tempo indeterminato, introdotti nel 2015 e ridotti nell’entità per gli assunti nel 2016. La natura di tutti gli incentivi temporanei è di agire sulle scelte degli operatori anticipando decisioni che, probabilmente, sarebbero state comunque prese. Introdurre un incentivo alle assunzioni all’inizio di una fase di ripresa risponde alla logica di innescare un circolo virtuoso che faccia da volano alla ripresa e, favorendo la creazione di posti di lavoro stabili, possa risultare in un aumento netto di occupati anche una volta che gli incentivi siano terminati. Nel disegno di policy adottato, l’incentivo temporaneo è stato affiancato al Jobs Act, riforma strutturale di ampia portata con l’obiettivo di avvicinare il nostro paese agli standard europei in termini di flexicurity.
Un giudizio definitivo sull’efficacia di questa strategia sarà possibile solo nel medio periodo. Quello che sin da ora si può affermare è che se la crisi ha lasciato cicatrici ancora ben visibili, ha anche portato a spostamenti nella giusta direzione nell’offerta di lavoro femminile e degli over 55, nella domanda di lavoro stabile, così come nel ri-orientamento dell’occupazione verso il settore dei servizi”.

 

In aggiunta, il successo della ripresa occupazionale italiana non va misurato unicamente sulla base dell’aumento diretto dello stock degli occupati ma anche in relazione al fatto che durante la grave crisi economica precedente le ore lavorate erano diminuite molto di più dei posti di lavoro, principalmente per effetto dell’esplosione della cassa integrazione. Pertanto, durante la ripresa attuale non solo sono stati creati nuovi posti di lavoro ma è anche stata riassorbita gran parte della occupazione precedentemente parcheggiata in cassa integrazione.

 

Infine, molti commentatori ancora non sembrano aver capito che la debole dinamica degli ultimi anni del numero degli occupati tra i 15-24 anni e 25-34 anni è dipesa quasi unicamente da un crollo demografico di queste fasce di età. Mentre all’opposto tre-quattro annate successive di occupati di fine fascia sono contemporaneamente uscite dalle classi di età più giovani per andare a ingrossare quelle più anziane, il cui numero assoluto di lavoratori è cresciuto anche per effetto del “tappo” della Riforma Fornero. È quindi ora che si finisca di fare sterili polemiche su una occupazione che è fortemente cresciuta nei fatti (a dispetto di chi non lo vuole riconoscere). Sarebbe invece più utile studiare come armonizzare e ulteriormente modernizzare un mercato del lavoro che è comunque uscito dalla crisi profondamente cambiato, nonché squilibrato nell’incontro tra domanda e offerta di figure professionali, come dimostra anche il sempre più elevato numero di posti vacanti.

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