Cgil, Cisl e Uil insieme per festeggiare il 1 maggio (foto LaPresse)

Cari sindacati, riformatevi voi

Andrea Garnero

Il “populismo anti sindacale” di Di Maio non deve essere un alibi per conservare vecchie abitudini

L’intervento di Luigi Di Maio sui sindacati italiani “o cambiate o vi riformiamo noi” è stato condannato in maniera quasi unanime. Tuttavia il “populismo anti sindacale” del premier designato del Movimento 5 stelle non nasce dal nulla. Vari comportamenti passati, dalle battaglie politiche che di sindacale avevano poco fino alle crociere e le pensioni d’oro hanno nutrito il sentimento che il sindacato fosse un relitto del passato. Ancora più forte probabilmente per chi pensa che i corpi intermedi siano finiti e tutto passi ormai attraverso il leader o la rete. Ma anche prendendo per buona la minaccia “dimaiana”, cosa vuol dire “vi riformiamo noi” quando saremo al governo?

 

Un “buon sindacato”, una “buona associazione di industriali” o un “buon accordo collettivo” non si creano per decreto. In questo campo con l’intervento del legislatore è più facile distruggere che costruire. L’autonomia delle parti sociali è ciò che rende il sistema forte e utile.

Eppure, la boutade del candidato premier M5s non deve diventare la scusa per rimandare ancora alle calende greche una riflessione sul sistema di relazioni industriali e la contrattazione collettiva italiana. Per adattarsi e plasmare il futuro del lavoro non sono solo i sindacati a dover cambiare ma anche le associazioni datoriali e il sistema tutto.

 

La maggior parte dei paesi europei che hanno fatto riforme del mercato del lavoro negli ultimi anni hanno anche, con più o meno successo, cambiato le regole della contrattazione collettiva. Ultima la Francia di Emmanuel Macron, ma prima la Grecia, la Spagna e il Portogallo. Decenni fa la Germania. Non in Italia dove il governo ha lasciato il tema alle parti sociali che però o non sono andate molto lontano o non hanno dato vera applicazione al contenuto degli accordi.

 

Se negli ultimi trenta anni la quota di lavoratori iscritti a un sindacato è diminuita di un terzo in media tra i paesi Ocse (dal 30 per cento nel 1985 al 17 per cento nel 2013), in Italia è scesa solo di pochi punti percentuali, dal 42 al 37 per cento (secondo Tito Boeri, però, i dati in possesso dell’Inps per le grandi imprese mostrano tassi di sindacalizzazione ben più bassi, attorno al 25 per cento). Invece le aziende che fanno parte delle associazioni datoriali (Confindustria, Confartigianato, Confesercenti, ecc.) impiegano il 56 per cento dei lavoratori dipendenti, rispetto a una media Ocse del 51 per cento. Infine, la quota di lavoratori dipendenti formalmente coperti dagli oltre 800 contratti collettivi è stabile tra l’80 per cento secondo alcune stime e quasi il 100 per cento secondo altre. Sulla carta, quindi, l’Italia ha sindacati, associazioni datoriali e un sistema di contrattazione collettiva ancora relativamente solidi.

  

Rimedi francesi ai troppi contratti

Eppure se si scava un po’ di più si scopre che un’ampia fetta di lavoratori dipendenti di fatto è pagata meno dei minimi previsti dai contratti collettivi, in particolare al sud e nelle piccole imprese. La reazione pavloviana è invocare più ispezioni e sanzioni. Ma comunque non basterebbe. Serve semplificare il sistema riducendo il numero dei contratti – come sta facendo la Francia da un paio d’anni con la fusione graduale dei contratti – e magari potenziare la dimensione territoriale lasciando al contratto nazionale una funzione più di indirizzo che normativa. Di sicuro in attesa di riforme più ampie, si dovrebbe cominciare semplicemente a rendere le informazioni sui salari in vigore facilmente accessibili a tutti i lavoratori. Potrebbe essere un compito per il redivivo Cnel che già raccoglie i testi dei contratti.

 

Inoltre tra i paesi Ocse, l’Italia è quello in cui le relazioni industriali sono percepite come le più conflittuali, e non da oggi, per giunta con un leggero peggioramento negli ultimi anni. La fiducia che i cittadini ripongono nei sindacati secondo Eurobarometro è più alta, ma pur sempre sotto la media Ocse e in discesa rispetto al passato. Non basta un decreto per migliorare la qualità delle relazioni industriali, anzi, ma alcuni accorgimenti potrebbero aiutare: per esempio garantire la rappresentatività dei negoziatori, incentivare una rinegoziazione regolare, produrre statistiche e analisi condivise sullo stato di salute del settore e sulle sfide future e garantire il rispetto e l’esigibilità dei termini degli accordi collettivi.

 

La scelta dei governi di affidarsi alle parti sociali è prudente e apprezzabile. Negli ultimi anni, però, non solo non si sono fatti grandi passi concreti ma nemmeno il dibattito è avanzato granché. Eppure il mondo del lavoro continua a cambiare, anche in Italia. Fino a quando dovremo ancora aspettare?

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