I disastrosi effetti di salario minimo ed equo compenso sui lavoratori più deboli

Serena Sileoni

Esiste una buona letteratura a dimostrazione del fatto che certi strumenti finiscono per strozzare l’ingresso nel mercato del lavoro. Ecco perché succede

Ogni apertura alla concorrenza, anche la più piccola, genera la tentazione, per chi è già dentro, di rialzare gli steccati. Sono anni che i professionisti, e in particolare gli avvocati, tentano di reintrodurre il sistema dei tariffari, ossia il salario minimo per la loro professione. Qualcosa che non esiste per nessun altro lavoro: non per i lavoratori autonomi, ma a ben vedere nemmeno per i lavoratori dipendenti, dove la contrattazione collettiva è un ibrido che, in teoria, dovrebbe rappresentare solo un parametro di riferimento. Nel disegno di legge di conversione del decreto fiscale sono riusciti a introdurre in un emendamento votato nella notte del 14 novembre la proposta di equo compenso, già in esame in altri iter legislativi, che di fatto riporta il sistema delle tariffe minime. Nei rapporti di consulenza tra professionisti da un lato e banche, assicurazioni, grandi imprese e Pa dall’altro, i primi avranno diritto a pretendere un compenso minimo proporzionato alla qualità e quantità del lavoro. Per gli avvocati, il parametro di riferimento è un decreto ministeriale che oggi viene usato dai tribunali nel caso in cui la liquidazione debba essere decisa dal giudice, per le altre professioni ordinistiche si farà riferimento sempre ai parametri usati dai tribunali, mentre per le restanti il parametro resta ancora da definire. Se anche per queste si dovesse far ricorso a decreti ministeriali, l’equo compenso, ancor più dei tariffari stabiliti dai singoli ordini, rappresenterà una vera e propria restrizione per legge alla concorrenza.

  

In un sistema che ha fiducia nella libertà contrattuale e nella capacità delle persone di selezionare e distinguere le opportunità buone e cattive, equo è il compenso ritenuto accettabile dalle parti. Non necessariamente un compenso calcolato con formula matematica, ma un compenso per un’occasione di lavoro che è meglio cogliere piuttosto che no. Perché magari si è all’inizio della carriera, o perché si preferisce non lasciarsi sfuggire un cliente che può essere esibito, con un ritorno reputazionale, nel proprio portfolio.

L’eliminazione delle tariffe minime voluta da Bersani nel 2006 fu, nonostante le critiche, una misura a sostegno dei più giovani e dei professionisti meno avviati.

  

Esiste una buona letteratura a dimostrazione del fatto che il salario minimo – di cui l’equo compenso è corrispondente per i professionisti – a dispetto delle belle apparenze ha disastrosi effetti proprio sulle categorie di lavoratori più deboli che vorrebbe proteggere, strozzando loro l’ingresso nel mercato. Ma anche così non fosse, se c’è un elemento che contraddistingue il lavoro autonomo da quello dipendente è proprio la propensione al rischio, la possibilità di diversificare rischi e guadagni e quindi la variabilità dei compensi. Ed è per queste ragioni che esso difficilmente potrà funzionare, come argomenta in maniera esaustiva Enrico Maria Goitre in un focus pubblicato per l’Istituto Bruno Leoni.

  

Il professionista che, infatti, voglia accettare – per le ragioni più disparate e specifiche alla sua situazione e al rapporto col cliente – un compenso “iniquo” difficilmente farà causa al cliente. Sarebbe contraddittorio e controproducente: non solo non avrà guadagnato quel compenso, ma avrà probabilmente perso altre occasioni col medesimo cliente, magari col tempo economicamente più vantaggiose.

L’unico motivo realistico a sostegno dell’equo compenso poggia sull’idea alquanto altezzosa per cui le professioni intellettuali tradizionali non stanno sul mercato, non sono un lavoro come un altro ma hanno una dignità loro propria da mettere al riparo da ogni venale spirito concorrenziale. Un motivo che, per snobismo e anacronismo, non ha nemmeno bisogno di replica.

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