Perché combattere la flessibilità aiuta a rendere più precario il mercato del lavoro

Claudio Cerasa

Contro il sindacalista collettivo. Dal jobs act ai voucher

Nel linguaggio utilizzato quotidianamente da una buona parte del sistema politico e del sistema mediatico c’è un’espressione che compare spesso quando si prova a formulare una riflessione relativa alle condizioni del lavoro del nostro paese: combattere la precarietà. Il sindacalista collettivo, di fronte a questo concetto, solitamente tende a spiegare che il modo migliore per aiutare i precari è combattere quanto più possibile la flessibilità. Il ragionamento è lineare: disincentivare i contratti precari non potrà che far aumentare automaticamente i contratti a tempo indeterminato. E, specularmente, trasformare in uno stigma sociale la stipula di un contratto non a tempo indeterminato non potrà che disincentivare un datore di lavoro dal fare contratti diversi da quello a tempo determinato.

 

La teoria è nota e condivisa. Ma la realtà ci dice che il teorema del sindacalista collettivo purtroppo non funziona e tende persino a dimostrare l’opposto, ovvero che combattere la flessibilità spesso crea maggiore instabilità lavorativa, non maggiore stabilità. La prima notizia da cui partire arriva dai dati Inps relativi alle conseguenze dei primi mesi vissuti dal nostro paese senza voucher. Il risultato è stato sintetizzato così venerdì da Repubblica: i vincoli introdotti con la riforma per evitare il referendum hanno ridotto le prestazioni occasionali, circa dell’ottanta per cento, e ora il rischio è trovare nel mercato sommerso chi ieri lavorava invece con un contratto regolare. La seconda notizia arriva dai numeri offerti venerdì dall’Istat, che riportano un dato non valorizzato: in coincidenza con una riforma che ha reso più flessibili i criteri di accesso al mercato del lavoro, il Jobs Act, il flusso di contratti a tempo indeterminato è passato dal 16 per cento del totale (2014) al 28 per cento del totale (2017). La miscela tra queste notizie dimostra che il tic ideologico che tende a trasformare in un mostruoso stigma sociale la presenza di un contratto “atipico” ha un effetto opposto a quello di una politica che tende invece a non ingessare il mercato del lavoro, e tende a produrre effetti funesti che spesso colpiscono come un meteorite il governo di turno. E uno di questi effetti è la sostanziale impossibilità, per chi governa, di trasformare in un valore positivo la mobilità.

 

In un contesto in cui l’unico lavoro moralmente accettabile è quello che dura per tutta la vita, non può che essere complicato fare quel passo in più che servirebbe per proteggere davvero chi cerca un posto di lavoro: occuparsi meno della tutela del posto di lavoro e più della tutela del lavoratore. Un paese capace di emanciparsi fino in fondo da una dottrina sindacalisticamente corretta dovrebbe fare di tutto per tutelare la flessibilità, ricordandosi che spesso l’alternativa a un lavoro così detto precario non è un lavoro stabile, ma è un non lavoro o un lavoro in nero. E allo stesso modo, un paese capace di emanciparsi fino in fondo da una dottrina sindacalisticamente corretta dovrebbe cominciare a rendersi conto che per far funzionare come si deve il mercato del lavoro la mobilità non va demonizzata, ma va tutelata. Per farlo, per esempio, andrebbero destinate interamente le risorse stanziate oggi alla Cassa integrazione straordinaria (che di solito serve a tenere in vita aziende decotte) al finanziamento di un buon meccanismo di formazione di coloro che sono alla ricerca di un lavoro. Quel meccanismo permetterebbe di indirizzare verso un percorso giusto chi si trova in uno stato di mobilità e permetterebbe di ridurre al minimo casi come quelli di fronte ai quali si è trovata qualche giorno fa il presidente dell’Unione industriali di Treviso, Maria Cristina Piovesana, che dopo aver aperto un bando che metteva a disposizione 200 percorsi di formazione professionale retribuiti è stata costretta a chiudere il bando per carenza di adesioni. “Continuano a girare dati preoccupanti sull’entità della disoccupazione giovanile – ha detto sconsolata il presidente – eppure molte imprese continuano a segnalare difficoltà a trovare giovani disposti a investire in un percorso professionale nell’industria. Sarebbe bene che i giovani, piuttosto che continuare a sognare di diventare cuochi e magari di partecipare a programmi televisivi, fossero aiutati a valorizzare i loro talenti”. Per combattere la precarietà si dovrebbe partire da qui, smettendola una volta per tutte di giocare sulla pelle dei lavoratori con la demonizzazione folle di tutto ciò che fa rima con flessibilità.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.