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Ma il lavoro c'è

Giuliano Cazzola

Lo spostamento dell’occupazione dalle classi giovani a quelle anziane è un effetto ottico. I dati per capire

A sentire i commenti sulle rilevazioni periodiche dell’Istat, riguardanti i trend del mercato del lavoro, viene spontanea una domanda: dobbiamo vergognarci se aumentano gli occupati over 50? E’ una “nuova emergenza’’ che si aggiunge a quelle storiche? Basta guardare l’espressione del volto dei conduttori dei tg quando sono costretti a comunicare agli italiani la ferale notizia: un mix tra rassegnazione, disapprovazione fino a qualche cenno di ripugnanza. Poi viene esposto il teorema: la riforma Fornero ha aumentato l’età pensionabile costringendo così i lavoratori a restare – sempre più anziani e affaticati – nel posto di lavoro e ad impedire di conseguenza l’accesso dei giovani.

   

In sostanza, applicando, in questo dibattito, la cultura economica dei tanti Bar Sport sparsi per l’Italia, si arriva ad una solo conclusione: i giovani sono disoccupati anche per colpa delle nuove regole del pensionamento, modificando le quali si vedrebbero spalancare le porte delle aziende. Che la disoccupazione giovanile sia un grave problema è assodato, che si debbano adottare misure per ‘’forzare il blocco’’ è una promessa più volte ribadita dal governo. Bisognerebbe, però, cominciare ad interrogarsi – i talk show girano al largo da questi problemi – sul perché nel nostro paese, anche quando la crisi era più intensa e disperata, esiste, in modo strutturale, uno zoccolo duro di posti vacanti pari all’1 per cento del totale. Sulla base di indagini autorevoli il sistema delle imprese denuncia che vi sarebbe la disponibilità di 200 mila nuove assunzioni, se solo si trovassero i profili professionali adatti. Recentemente l’Unione industriali di Treviso – che aveva messo a bando 200 posti di lavoro dopo un corso di formazione retribuito – ha denunciato il sostanziale fallimento dell’iniziativa.

 

Il caso degli over 50

Ma tornando al caso degli over 50, è bene non dimenticare l’ossessione dei c.d. esodati, i quali, nelle diverse categorie, hanno potuto avvalersi di una campagna mediatica impostata su due presupposti: le aziende si liberano dei lavoratori anziani, i quali poi non trovano soluzioni alternative alla pensione. Questa ‘’dottrina’’ – clamorosamente smentita dalle statistiche – costerà al paese circa 12 miliardi a regime, grazie a ben otto salvaguardie che giungono ad includere coloro che, con le vecchie regole, avrebbero visto decorrere la pensione entro sette anni (6 gennaio 2019) dall’entrata in vigore della riforma Fornero. Nel caso italiano, le misure che si sono succedute nella XVI legislatura hanno avuto l’effetto desiderato di far aumentare i tassi di partecipazione e di occupazione nella fascia di età 55-64 anni, che in precedenza erano tra i più bassi in Europa: circa 10 punti percentuali al di sotto della media dell’Eurozona (dove è sono buoni i trend tanto dell’occupazione giovanile quanto di quella degli anziani). Si consideri, poi, che la principale garanzia per l’adeguatezza dei trattamenti sta nella durata della vita lavorativa, mentre in Italia sembra essere preferibile andare in quiescenza il prima possibile sia pure con una prestazione inferiore.

 

Le lavoratrici dei settori privati percepiscono assegni più bassi di quelli dei lavoratori essendo costrette dalla loro posizione sul mercato del lavoro ad andare in quiescenza di vecchiaia (quando bastano vent’anni di versamenti) perché non dispongono mediamente di storie lavorative tali da consentire accessi anticipati. Nei mesi scorsi si è celebrato il record di un tasso di occupazione femminile pari 48,8 per cento perché ha raggiunto il livello del 1977. In questo caso il merito è delle riforme pensionistiche che hanno disposto la graduale parificazione dei requisiti di genere per la pensione di vecchiaia. E’ sufficiente osservare i valori assoluti della coorte compresa tra 55-64 anni. Le donne occupate sono passate da 1,379 milioni del primo trimestre 2014 a 1,674 milioni dello stesso periodo del 2017.

  

Crescita molto vigorosa, pari a circa il 21 per cento in soli 3 anni. Un incremento che ha riguardato, soprattutto, le donne della coorte anagrafica più anziana. Vi è poi un’altra considerazione sistematicamente ignorata: la stretta connessione con gli andamenti demografici. L’effetto combinato dell’invecchiamento e della denatalità sta determinando cambiamenti radicali che si ripercuotono sulla composizione e la consistenza delle diverse coorti della popolazione. L’Istat descrive con chiarezza tale relazione: “Il calo della popolazione tra 15 e 49 anni influisce in modo decisivo sulla variazione dell’occupazione nei dodici mesi in questa fascia di età, accentuando il calo per i 15-34enni e rendendo la variazione negativa per i 35-49enni.

   

Al contrario la crescita della popolazione degli ultracinquantenni ne amplifica la crescita occupazionale, con un conseguente aumento del divario generazionale’’. In sostanza, come ha ricordato l’Osservatorio sul mercato del lavoro della Fondazione Anna Kuliscioff, l’apparente fenomeno dello spostamento dell’occupazione dalle classi giovani a quelle anziane è prevalentemente un effetto ottico, dovuto al progressivo invecchiamento della popolazione. Il che si comprende – secondo la Fondazione – con un esempio che intreccia i dati (del 2016 sul 2015) dell’occupazione con quelli della popolazione. ‘’In totale – è scritto – nella fascia 15-34 anni la statistica mostra una diminuzione di 19 mila occupati. Ma, e qui c’è la sorpresa, questa fascia di età ha perso nel corso dell’anno 46 mila soggetti: il saldo pertanto è positivo di 27 mila unità pari ad un aumento del tasso di occupazione dello 0,5 per cento’’.

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