“Abbiamo rigirato la squadra come un calzino e ora il team appartiene a un gruppo di ragazzi italiani sbarbati. Non sono superstar tedesche o inglesi”, ha detto Marchionne.

Incantesimo Ferrari

Ugo Bertone

Un longevo mito italiano trova nuova grandezza dopo prolungate difficoltà. Da Enzo “Drake” a Sergio Marchionne, così la “Rossa” strega chi la guida

L’incantesimo è rotto: sotto la rocca del Principe è finalmente svanito il maleficio che teneva lontane dalla vittoria le Rosse, ruggenti eredi delle creature di Enzo Ferrari, l’indimenticabile Drake che ancor oggi giganteggia (e sovrasta) nella memoria di Maranello. “E’ arrivato quello che aspettavamo da tanto tempo, una gara che entrerà nella nostra storia”, ha annunciato, un po’ emozionato, un po’ orgoglioso Sergio Marchionne: la doppietta delle Ferrari al traguardo di Montecarlo a fine maggio ha cancellato le delusioni di un recente passato fallimentare, tanto memorabile sul fronte dei profitti, quanto da dimenticare per i flop accumulati in pista. I più importanti anche per chi guida la Rossa dietro la scrivania come lui stesso ebbe a sottolineare, improvvidamente, al momento di licenziare Luca di Montezemolo: “Un manager a capo della Ferrari non si giudica solo dai risultati economici ma anche da quelli sportivi. E sono sei anni che non vinciamo niente”. Da allora, ottobre 2014, sono passati trenta mesi, tre vittorie nel 2015 (frutto di scelte passate), poi una lunga quaresima condita di flop imbarazzanti, a rischio di precipitare nella classifica degli sponsor.

 

Prima della risurrezione di questa stagione culminata nella doppietta di Montecarlo buona per liberare la fama di manager abile ma senza quel tocco magico che è necessario per aspirare all’ultima grande impresa: diventare, per carisma e risultati, il degno erede del Drago, il mito planetario del mondo a quattro ruote, così noto ed amato ad ogni latitudine. Non solo il successore di Montezemolo, che di vittorie ne ha ottenute mica poche, ma un leader capace di entrare nella leggenda, una volta uscito tra un anno dalla guida di Fiat-Chrysler Automobiles (Fca), maritata o meno l’azienda italo-americana con un altro Big, impresa per ora davvero difficile, quasi impossibile. Insomma, svanito per ora il sogno di ripetere in grande i successi di Lee Iacocca o Henry Ford, “io me lo vedo al posto del Drake per un bel po’ di anni”, ipotizza Luca Ciferri, firma illustre dell’americano Automotive News. “Purché – frena Giuseppe Berta, lo storico dell’economia da sempre attento al mondo dell’Auto – Ferrari, in caso di vendita di Fiat Chrysler, non resti l’unica presenza di Exor nel mondo dell’Auto: in quel caso, nel corso del tempo, una poltrona sola potrebbe non bastare per Marchionne e John Elkann”. Nel frattempo, non stupisce che il manager giramondo, a detta di chi segue da vicino le sue giornate da globetrotter, passi sempre più tempo dalle parti della fabbrica-gioiello di Maranello piuttosto che a Torino o a Detroit. Intanto, in un momento in cui i titoli dell’Auto vanno a corrente alternata, Ferrari corre se possibile più veloce in Borsa, a Piazza Affari e Wall Street, che in pista: più 101,8 per cento in un anno ai prezzi del 31 maggio. Un bel modo per festeggiare il “miracolo” di Montecarlo – per quanto non replicato lo scorso fine settimana sul circuito di Montreal (Canada). Sì, perché il manager che in questi anni ne ha visto di tutti i colori non esita a parlare di miracolo di fronte alla risurrezione della Rossa, snobbata e sbeffeggiata un anno fa, oggi di nuovo temuta “dai tedeschi di Stoccarda”, quelli di Mercedes che Marchionne nemmeno vuole nominare. Eppure, per la verità il ritorno alla vittoria di miracoloso ha ben poco. Semmai è il frutto di un metodo dl lavoro che ha già funzionato in Fiat, dove Marchionne è arrivato quando il tracollo sembrava questione di anni, se non di mesi (salvo intervento pubblico). E in Chrysler, rilevata dall’Amministrazione americana in condizioni ancor più precarie dopo il passaggio di private equity e le cure inefficaci e costose degli altri tedeschi di Stoccarda, quelli di Daimler, scappati dal Michigan lasciando però progetti e investimenti che il manager italiano ha saputo far fruttare in maniera davvero miracolosa. Ma c’è una grande differenza tra le imprese di ieri e la sfida della Rossa: a Maranello il manager si è trovato a gestire un’azienda in salute, che Montezemolo aveva saputo proteggere dalle tempeste degli anni grami di Fiat. Un vantaggio ma anche un handicap per un leader dalla personalità e dall’autostima forte che dà il meglio di se partendo da zero, facendo leva sulla capacità di assumersi le responsabilità e di saper valorizzare la “sua” squadra, purché sia proprio la sua. Ma anche questo serve a spiegare i segreti di un successo arrivato solo dopo le disavventure di un inizio choc.

 

In verità il ritorno alla vittoria a Montecarlo di miracoloso ha ben poco: è il metodo marchionnesco in Fiat replicato nella Formula 1

L’analisi del flop. “Abbiamo aspettato forse un po’ troppo per fare i cambiamenti – ha spiegato Marchionne al termine della stagione 2016, ricca solo di sconfitte – ma ci eravamo basati sull’ottimismo del momento, che non era stata poi così male considerando il punto di partenza, tre vittorie nel 2015. E così siamo arrivati un po’ troppo ottimisti nel 2016 pensando che la macchina ci fosse”. Una “figuraccia non piacevole” cui non è estranea la difficile convivenza con il capo del team, quello che in teoria doveva fare la differenza: James Allison, ingegnere spaziale di Cambridge, in Formula 1 dal 1989,un mito del settore strappato alla concorrenza, proprio dopo aver firmato un’apprezzata Lotus, nel 2013 da Montezemolo perché disegnasse la macchina della riscossa. Al contrario, Allison e Marchionne non hanno mai legato. Certo, a complicare il rapporto ha contribuito il dramma personale di Allison, spesso in Gran Bretagna al capezzale della moglie malata. Ma il rapporto tra i due si è presto deteriorato per motivi, diciamo così, culturali: da una parte un ingegnere inglese che, scrive Michael Schmidt, esperto corrispondente della rivista tedesca Auto Motor und Sport, “abituato a dire quello che pensa che non accettava che gli venissero fissati obiettivi irragionevoli, che contrastavano con le sue convinzioni maturate in venticinque anni di esperienza nell’automobilismo”. Dall’altra, un manager, Marchionne, che già in Fiat ha in passato “stressato” i tempi di lavoro e le certezze dei tecnici. Di qui una separazione senza troppi rimpianti: Allison se ne va nel luglio di un anno fa, lasciando la scuderia prima della fine di una stagione fallimentare, presto reclutato da Niki Lauda nell’invincibile (finora) squadra della Mercedes. E a Maranello? E’ inevitabile, spiegano gli esperti, che si apra la stagione del lunghi coltelli. Sbagliato: non ci sarà la giubilazione di Maurizio Arrivabene, il direttore della scuderia Ferrari, ancora oggi chiamato – compito non facile – a guidare da lontane le gesta dei due cavalli di razza , Sebastian Vettel e Kimi Raikkonen (“ci vuole coraggio, determinazione, e anche un pizzico di follia” ha spiegato lui, scuola Philip Morris, membro indipendente del cda Juventus). Soprattutto non ci saranno acquisti di star del circus della Formula 1, fenomeni come Paddy Lowe che proprio in quei giorni sceglierà di lasciare Mercedes ma solo per fare ritorno, anche da azionista, al suo primo amore, la scuderia di Frank Williams.

 

Non solo F1. Per la Ferrari il danaroso mercato asiatico – Cina e India soprattutto – è una speranza di successo, dicono gli esperti

Lezioni di leadership. “Non ci serve l’eroe – dichiara Marchionne – non ci manca questo o quello. Ci mancano moltissime cose, ma la squadra è squadra. Fateci lavorare, arriveranno i risultati. Poi se va male, criticate me, lo sbaglio l’ho fatto io. Non cercate altri capri espiatori”. Insomma, la situazione che super Sergio ama di più: “Lo sognavo – spiega parlando con gli analisti –, è arrivata. E’ una squadra veramente brava. In scuderia finalmente abbiamo dei ragazzi che sono puntati nella direzione giusta. Stanno lavorando bene, i piloti ci sono e la macchina c’è”. Una coccola a Vettel, già frustrato e depresso dopo l’anno nero (“lui è contento in macchina, se gli piace quella macchina là, può rimanere con me quanto vuole”), una tirata d’orecchi soft a Raikkonen quando ce n’è bisogno (“ne ho parlato con Arrivabene – dice dopo le delusione del finlandese nel Gp di Cina – forse è ora che si siedano e facciano una discussione... Oggi mi pare avesse altri impegni, era impegnato a fare qualcos’altro”). Ma il colpo da maestro – quello che si attende da un vero leader quale lui è – arriva a Maranello. Mentre impazzano i gossip su quale mago sarà chiamato a concepire la Ferrari per il 2017, Marchionne sorprende tutti: il nuovo chief technical officer di Ferrari non sarà una grande firma (dall’ingaggio a sette zeri), bensì Mattia Binotto. Binotto chi, si chiedono perfino gli addetti ai lavori. Non sono molti a conoscere il motorista già apprezzato da Montezemolo e Stefano Domenicali, taciturno e riservato in uno spogliatoio spesso troppo ciarliero. Uno che per una vita, dopo l’università di Losanna fino al master a Modena, si è occupato di motori, ma solo di quelli, ovvero fuori dei motori, non vanta un’esperienza di rilievo, all’altezza di una sfida improba, visti i risultati di Mercedes ma anche i progressi spettacolari di Red Bull nell’ultima parte del 2016. Solo Marchionne poteva arrischiare una scelta così temeraria: un conto è guidare l’area motori, altra padroneggiare l’intera architettura del progetto, soprattutto in un anno di grandi cambiamenti specie nell’aerodinamica. “E’ vero – commenta lo stesso Binotto all’esordio – Ci saranno tanti cambiamenti regolamentari sull’aerodinamica, avremo monoposto molto più veloci in curva, accelerazione, frenata. Ma non credo proprio che a Maranello non si sappia costruire una macchina così”. Una reazione pacata, “normale”. Un po’ svizzera perché, al pari di Marchionne, Binotto, che è nato a Losanna, è un tipo positivo, lontano dalle passioni spesso sanguigne dei box. Almeno così la vede il grande rivale: Niki Lauda, molto critico in passato sulla presenza di troppi ingegneri italiani in Ferrari. “Binotto è svizzero e si vede. La Ferrari ora funziona perché c’è uno svizzero che organizza gli italiani, facendoli lavorare ma lasciandoli liberi di esprimere la loro immaginazione e le loro idee. La figura chiave è Binotto, non ci sono dubbi o almeno così sembra dall’esterno”. Forse c’è del vero in questa analisi. Oppure una parte del merito è del boss, capace di metter assieme un collettivo di tecnici, quasi tutti italiani, che sanno di avere un’occasione da non perdere e che, come talvolta capita, hanno saputo rispondere con i fatti allo scetticismo generale. “Abbiamo rigirato la squadra come un calzino – ha detto Marchionne in assemblea – e ora il team appartiene ad un gruppo di ragazzi italiani sbarbati. Non sono superstar tedesche o inglesi. Sono fiero di loro perché la macchina c’è”.

 

Non stupisce che il manager giramondo passi sempre più tempo a Maranello che a Torino o a Detroit. Resterà in sella al Cavallino?

In Borsa, in Pole Position. La macchina va, non c’è che dire, conferma Gianni Tamburi di Tip, il finanziere che da sempre ha scommesso sulle aziende guidate da Marchionne. “In Ferrari – dice – lui ha adottato il metodo di sempre: spremere tutto il valore possibile dall’azienda senza lesinare gli investimenti necessari per sfruttare le potenzialità del marchio”. Con un’attenzione speciale, sottolinea Ciferri, per le serie speciali, come quella per i settant’anni dedicate ai superricchi. Grazie a questi compratori Vip, capaci di spendere una “milionata” per un gioiello da tener nel garage di Singapore o da far sfilare (con autista) nel traffico di Shanghai, nei primi tre mesi del 2017 l’utile netto è schizzato a 124 milioni, più 60 per cento, contro un più modesto più 6 per cento dei volumi. Ma anche la clientela “normale”, quello degli appassionati dai 250 mila euro in su per aggiudicarsi gioielli da far sfilare a Miami o dalle parti di Riccione (o da fracassare sulle autostrade svizzere come è successo a lui qualche tempo fa) continua a dare grandi soddisfazioni. Anzi, il mercato chiede sempre più le potenti V12 a dodici cilindri (il 50 per cento in più) rispetto alle meno dispendiose V8. In attesa del modello ibrido, in uscita nel 2019 (assieme ad un modello top secret) che consentirà di mantenere la potenza ma di ridurre le emissioni. Addirittura, non è escluso che una Ferrari possa partecipare alla Formula E, il mondiale delle auto elettriche, anche se Marchionne coltiva un’altra idea: schierare in pista un’Alfa Romeo formula E, da avviare alle corse per rinfrescare un’altra leggenza che, guarda caso, si richiama a Drake. Già in occasione del meeting di Detroit, un volta completato l’acquisto di Chrysler, Marchionne aveva fatto ricorso alla foto di Enzo Ferrari pilota del Biscione prima di dar vita all’epopea del Cavallino Rosso. Anche così si coltiva la memoria e il sogno inconfessato del nuovo Drake. Intanto gli affari vanno a gonfie vele. Il prossimo traguardo da tagliare prevede l’obiettivo delle 10 mila vetture entro il 2020 contro l’obiettivo delle 8.400 mila vetture uscite quest’anno dalla fabbrica di Maranello, più puntuale di un orologio svizzero, pulita come una clinica di lusso come si conviene all’officina delle supercar per i supermilionari, che si tradurranno in 3,3 miliardi di ricavi. “Ora il grosso del lavoro – ha detto – è rafforzarci sulla parte delle vetture stradali, per avere i prodotti giusti tra cinque o sei anni, e cercare di espandere la capacità produttiva. Non per togliere esclusività al marchio, ma per allargare quello che copriamo a livello di mercato”. Forse ci sarà spazio per una nuova Baby Ferrari, con un possibile ritorno alla ribalta di una Dino Ferrari che potrebbe uscire nel 2019, anche se Marchionne non si sbilancia: “E’ prematuro dare anticipazioni”. Ma su un punto, almeno per ora, lui è deciso: a differenza dei “nemici” di Lamborghini , la sua Ferrari non produrrà un Suv. Questione di nobiltà (o di portafoglio avaro, dicono i maligni). “L’importante è portare risultati economici, ma anche arrivarci senza distruggere il marchio e il dna della Ferrari — risponde lui – C’è una grandissima storia che bisogna fare evolvere, ma non si può violentarla”. Ma di evoluzione in evoluzione, non si rischia così di saturare il mercato? “Non è detto – risponde l’analista Ciferri – I segreto sta nella capacità di allargare la domanda. Se si vendono più auto in Cina, India o altri nuovi mercati, il pericolo non esiste”. Il problema è accompagnare la crescita con gli investimenti commerciali giusti: su Alibaba, le 40 Ferrari in vendita nel paese del Drago (il destino di un nome) sono andate a ruba, ma Internet non può rispondere a tutte le richieste di una domanda corteggiata dai soliti tedeschi, così potenti sotto la Muraglia. Ma non è il caso di esagerare gli ostacoli. Il mix sembra quello giusto: ricerca, tutela del brand, rinnovamento giudizioso dei modelli senza strafare. Una macchina perfetta, soprattutto se i risultati sportivi, più volatili di quelli pur al cardiopalma delle Borse, non tradiranno la fiducia di supporter ed azionisti. Ma quanto durerà? La tabella di marcia prevede che Marchionne lasci la guida di Fca nella primavera del 2019, dopo l’approvazione dei conti dell’anno prossimo. Ma lo stesso non vale per Ferrari. Anzi, dal bilancio a fine 2016 emerge che il manager, per incassare le sue stock options (valore attorno ai 30 milioni ai prezzi attuali), dovrà restare in Ferrari almeno fino al 2021. C’è tempo per altre vittorie. E anche altre sconfitte che faranno male ma non troppo. I Draghi devono avere la pelle dura.

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