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Lode a Kimi Raikkonen

Fabio Tavelli

Il pilota finlandese è amato nonostante non gliene possa fregare di meno di tenere pubbliche relazioni, nonostante ogni tanto risponda alle domande dei cronisti con dei gorgheggi più che con delle considerazioni

"Lasciatemi stare, so perfettamente quello che sto facendo”. Rende molto di più in inglese. “Leave me alone, I know what I’m doing”. Immaginate la faccia dell’ingegnere della Lotus quando Kimi Raikkonen gli ha risposto così durante un team radio. Uno di quei momenti nei quali chi guida a 300 all’ora vorrebbe scuoiare chi sta dall’altra parte del microfono e chi è al muretto vorrebbe scomparire nel retro del box. Ce ne sono decine di questi dialoghi tra lui e i suoi ingegneri per le quali un comico pagherebbe oro per poter disporre dei diritti d’autore. “Pensavo di anticipare il pit stop”, aveva comunicato Kimi durante il GP di Silverstone. Ma una volta rimbalzato dagli strateghi al computer il suo commento è stato: “Ok, ok. Era solo un suggerimento. Non penserò più”.

 


Kimi Raikkonen (foto LaPresse)


 

I dialoghi Kimi-muretto e le sue massime raccolte in un’autobiografia pubblicata in finalndese (la versione inglese è uscita da poco) danno solo in parte la misura di quanto sia naïf questo biondino capace di aspettare cinque anni, sette mesi e sei giorni per tornare sul gradino più alto del podio senza nemmeno togliersi gli occhiali neri durante l’inno nazionale. Quando a marzo del 2003 vinse la prima gara in F1 a Sepang, Hu Jintao diventava presidente della Cina e le truppe anglo-statunitensi davano inizio alla Seconda guerra nel Golfo. Ha vinto ancora, a distanza di 15 anni e 6 mesi, e può raccontare alle renne di averlo fatto almeno una volta con i motori V10, V8 e V6 Hybrid Turbo. Come se Borg al posto di prendere pallate da Arrese avesse vinto il Roland Garros con la racchetta di legno. Inimmaginabile in moltissimi sport, possibile in F1.

 

Certo, è tempo di celebrare Lewis Hamilton e il suo quinto titolo, mentre Kimi ne ha vinto “solo” uno. Ma ovunque voi andiate in giro per i circuiti, al netto degli ultrà di conclamata fede, troverete un uomo solo al comando all’applausometro. Lui, Kimi di Finlandia. L’antipersonaggio per definizione, colui che davanti a 30 mila persone che lo stavano adorando come un’icona sacra per aver riportato a Maranello il titolo piloti nel 2007 a precisa richiesta del presidente Montezemolo di dire al microfono qualche parola in italiano rispose con un indimenticabile “no, thanks”. Non conosce una solo parola di italiano e a chi glielo fa notare risponde che non è venuto alla Ferrari per imparare la nostra lingua.

 

Raikkonen è amato nonostante. Nonostante non gliene possa fregare di meno di tenere pubbliche relazioni, nonostante ogni tanto risponda alle domande dei cronisti con dei gorgheggi più che con delle considerazioni.

 

È l’antipersonaggio che diventa icona, viene soprannominato ice man e invece è molto più torrido di tanti chierichetti imboccati dagli uffici stampa. Ci sono piloti che hanno il padre che compra una scuderia per farli correre e padri di piloti che fanno tre lavori pur di garantire al figlio di avere una chance di guidare una F1. Kimi appartiene alla seconda categoria. Non tutti sanno che dietro ai suoi lunghi silenzi si nasconde una forma non tanto leggera di dislessia. Kimi non risponde mai al telefono e certamente non ha più con sé quello che utilizzava quando, quella volta sì, rispose al suo agente che gli riferiva che da Maranello gli avevano dato il via libera per il suo ritorno sulla Rossa. Quel telefono volò in mare dopo il suo laconico “ok, bye” mentre Kimi era in barca. Prova allergia per i messaggi e solo da poco ha iniziato a conoscere Instagram, dove pubblica cose involontariamente buffe che fanno il pieno di commenti. Una volta fu quasi arrestato in un aeroporto perché si era infilato sotto lo scanner dopo il suo bagaglio. Spiegò ai controllori che voleva vedere il suo corpo ai raggi X. A chi gli chiedeva se i suoi figli fossero felici per la sua vittoria ad Austin lui ha risposto che era probabile si fossero addormentati davanti alla tv. Ma Kimi è soprattutto un grande manico. La sua difesa su Hamilton prima e Verstappen poi domenica scorsa ad Austin è da proiettare in tutte le drivers academy. Certo, diranno quelli del quasi estinto PaR (Partito anti Raikkonen), che ogni tanto sembra stia guidando un pullman turistico. E poi c’è quella staccata alla prima curva a Monza che forse ha mandato definitivamente ai matti Vettel. Eh si, perché qualcuno pensava che essendo finlandese come lui dovesse comportarsi alla stregua di zerbino-Bottas e rispondere “’gnorsì” a ogni team-radio. Andateci voi a dire agli splendidi 40enni di farsi da parte. Chiedete a Valentino Rossi di dar strada a Vinales. Qualche ironia la provoca la sua mai smentita passione per la vodka. Pare che una volta si sia prodotto in un party lungo quasi due settimane non proprio per astemi e che secondo lui l’alcol è utile per alleviare lo stress. Verità o leggende, tipo quella secondo cui gli desse noia salire sul podio nei paesi arabi quando al posto dello champagne ti portano la gazzosa. Dettagli che lo rendono unico, come domenica scorsa quando gli hanno fatto i complimenti via radio. “Era ora, cazzo”, è stato il suo sigillo.

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