Banca d'Italia (foto LaPresse)

Quello che Renzi non dice sulle banche pur dicendo molto

Renzo Rosati

Nell’analisi sulle riforme bancarie offerta al Sole, l’ex premier evita di citare Banca d’Italia, attore (non troppo) protagonista

Roma. Tra il 2011 e il 2016 le prime nove banche popolari italiane e Banca Etruria hanno cumulato perdite lorde per 19,16 miliardi di euro. Si tratta di quasi tutti gli istituti sui quali il governo di Matteo Renzi è intervenuto con la riforma che obbliga a trasformarsi in società per azioni e mettersi sul mercato, e l’ex premier l’ha ricordato ieri sul Sole 24 Ore, dismettendo i toni un po’ pop. Anche perché sull’argomento il populismo da talk-show s’è molto esibito difendendo le ragioni del “risparmio tradito”, manager incapaci, fondazioni “del territorio” nominate in gran parte dallo stesso fronte leghista-sovranista-sinistra scissionista che oggi cerca d’infiltrarsi nelle assemblee dei palazzetti padani, o contesta come regalo i 20 miliardi di intervento pubblico in Mps. Renzi ricorda che quella riforma, che ha tra l’altro scoperchiato il vaso di Pandora della gestione di Gianni Zonin a Vicenza, era attesa da oltre vent’anni, da quando ministro del Tesoro era Carlo Azeglio Ciampi e il suo direttore generale era Mario Draghi.

Ma mentre la Lega in Veneto e gli ex Pci (ora scissionisti) a Siena difendevano il modello territoriale, la stampa si esercitava sul genere complotti massonici & poteri forti. Ricorda nulla il tormentone Jp Morgan? E il caso Etruria come dinasty governativa? Anche la fusione di Bpm e Banco Popolare, rimaste fuori dagli scandali ma in debito di efficienza (8,4 miliardi di perdite), è andata nell’unica direzione percorribile, quella del mercato. Prendersela con l’Europa e le sue direttive è facile, come pure ricordare che Germania, Francia e altri hanno salvato con denari pubblici i loro campioni; ma all’epoca avevano mezzi e strumenti farlo. Renzi, che con l’Europa polemizza spesso, stavolta si tiene alla larga.

 

Tuttavia l’ex presidente del Consiglio sembra avere deciso di non andare fino in fondo nella ricostruzione dei fatti. Manca un protagonista: Banca d’Italia. La quale ha sì ricordato che la riforma bancaria era anche una sua priorità, ma dopo che Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan erano scesi in trincea, tra accuse politiche destra-sinistra e sentenze della magistratura, dai Tar al consiglio di stato, che ne frenavano l’attuazione. Non poteva via Nazionale mostrare più di coraggio, o temeva di sporcarsi le mani con la politica (cosa che fa abitualmente il presidente della Bundesbank Jens Weidmann)?

 

Sottostante a questo argomento ce n’è un altro, il ruolo delle fondazioni azioniste di diritto di Bankitalia. A novembre prossimo, pur con la nuova legge che non prevede più il mandato a vita e delega la scelta al governo, esse saranno chiamate a “esprimere parere” proprio sul rinnovo di Ignazio Visco quale governatore, per altri sei anni. La procedura, alla fine saranno Paolo Gentiloni, Padoan e Sergio Mattarella a decidere, identifica un passato duro a morire. Fondazioni, banche e assicurazioni sono proprietarie delle quote di Via Nazionale in una graduatoria che vede il gruppo Intesa al 30 per cento circa e Unicredit-Generali al 24, in un tipico rapporto controllati-controllore.

 

Nel frattempo queste istituzioni subiscono una progressiva perdita di potere non solo “sul territorio” (per ciò che scrive Renzi) ma nei maggiori gruppi bancari. L’aumento record di capitale di Unicredit è stato promosso dall’ad Jean Pierre Mustier, un successo, ma in extremis dopo che le fondazioni si erano impantanate sulla scelta del management. Quanto a Intesa, Compagnia di San Paolo e Cariplo, contano ancora, ma non come prima. Le due banche sono oramai così diverse tra loro come sono diversi i rispettivo approcci nei rapporti con gli azionisti. Via Nazionale o si adegua o declina.

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