Il premier Matteo Renzi (foto LaPresse)

Il testo finale, anticipazione

Ecco il piano di Renzi per riorganizzare le società pubbliche locali

Renzo Rosati
La visione renziana di cosa deve essere un’azienda di servizi locale, chi la controlla e chi deve pagare se sbaglia

Roma. Diciannove cartelle, più relazione illustrativa, del “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica”: i famosi tagli per ridurre da circa 8 mila a un migliaio le aziende partecipate da stato, regioni e comuni. E il nuovo “Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale”, 31 cartelle, di cui il Foglio ha letto in anteprima la versione finale, per disciplinare il risultato delle razionalizzazioni e definire la visione renziana di cosa deve essere un’azienda locale di servizi, in base a quali criteri di efficienza, mercato e trasparenza debba funzionare, chi debba comandarla e controllarla, quanto debba costare, e le riduzioni di trasferimenti statali per chi sbaglia.

 

Eccoli dunque i decreti delegati attuativi della riforma della Pubblica amministrazione che venerdì 15 verranno portati in consiglio dei ministri. I due testi, di 26 e 32 articoli, sono complementari. Il primo rappresenta la tattica, la scure sulle partecipate vessillo della rupture del presidente del Consiglio Matteo Renzi, ma anche invocata da commissari alla spesa e parte del mondo sindacale, che ora un po’ si ribella. Il secondo decreto vuole essere la strategia, la corretta amministrazione negli enti locali superando i decenni di cogestione sindacal-burocratica, le malefatte romane, con un “modello Expo” neppure troppo sottinteso.

 

I parametri dei tagli sono quelli già annunciati dal premier e dal ministro per la Semplificazione e la Pubblica amministrazione Marianna Madia, titolare della riforma. Gli “obblighi di dismissione” (articolo 5 del primo decreto) scattano per società partecipate “non strettamente necessarie per il perseguimento delle attività istituzionali” e per le quote di minoranza nelle stesse; quando non c’è produzione, progettazione, realizzazione, gestione e committenza di “servizi di interesse generale”; o non c’è investimento “secondo criteri propri di un qualsiasi operatore razionale in economia di mercato”; o non esiste “convenienza economica e sostenibilità finanziaria”; per doppioni di altre società; se sono prive di dipendenti o se i dipendenti sono più degli amministratori; se per quattro anni su cinque hanno chiuso il bilancio in rosso, o non abbiano un fatturato superiore a una determinata soglia (da decidere); se hanno comunque necessità di ridurre i costi o aggregarsi ad aziende simili; se non hanno la forma di società per azioni o a responsabilità limitata.

 

[**Video_box_2**]Repubblica ha calcolato che questo metterà a rischio 100 mila posti di lavoro, tra vertici e impiegati. Ma è una stima che non tiene conto dell’obbligo di accorpamento, privatizzazione, quotazione in Borsa, pure previsto dal decreto. Mentre per chi rimane varranno le tutele dei dipendenti pubblici; e lo stesso Renzi ha minimizzato affermando che non ci saranno risparmi di denaro pubblico, ma “efficienza”. Il decreto prescrive per le aziende un amministratore unico, vieta i pensionati sia pubblici sia privati nei consigli d’amministrazione, prevede una verticalizzazione del superiore diretto: per le società statali il presidente del Consiglio, per quelle regionali il presidente di regione, per quelle comunali il sindaco. Fine della polverizzazione di poteri tra ministri e assessori. Questa la parte “hard”.

 

Il software è appunto il nuovo Testo unico dei servizi locali, fin troppo fitto di richiami alla trasparenza e alla consultazione dei cittadini e delle associazioni di consumatori, con la costante divisione tra reti e servizi, e il ricorso all’appalto privato piuttosto che la scelta “in house”; con obblighi particolari per le aziende di rifiuti, compreso quello di sottostare a un’authority che si occuperà di energia, reti e ambiente, e che dovrebbe chiamarsi Arèra (Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente).

 

L’authority coabiterà con un osservatorio ubicato a Palazzo Chigi (all’inizio si era pensato di assegnarla al ministero dello Sviluppo economico), destinandovi personale già esistente. L’osservatorio non pare essere un abbellimento, ma un organismo con funzioni di supervisione e con poteri sanzionatori: regioni e comuni che non rispettano reiteratamente le regole perdono l’accesso ai fondi pubblici e alla ripartizione di quelli europei.