Il ministro per la Semplificazione e la Pubblica amministrazione Marianna Madia (foto LaPresse)

Riforma Madia, non tutte le partecipate si porta via

Alessandro De Nicola
Venerdì arrivano in Consiglio dei ministri alcuni decreti attuativi della riforma della Pa, inclusi quelli per razionalizzare le società partecipate. Perché i tre capisaldi – guadagna o chiudi, il potere in mano a una persona sola e obbligo di non proliferazione – possono essere aggirati dalla politica senza troppe difficoltà.

Uno dei rari bersagli che ha sempre accumunato, almeno nelle intenzioni, il governo Renzi con la pattuglia di bizzarri liberisti pur presente nel nostro paese, è quello delle società partecipate. Sin dai tempi della Leopolda le quasi 8.000 imprese, che secondo l’Istat (ma per il ministero delle Pari opportunità sono 10.000: il povero commissario alla revisione della spesa pubblica, Carlo Cottarelli, non si raccapezzava) sono in mano pubblica, hanno costituito un elemento duraturo (seppure intermittente, un po’ come quegli amori estivi che rinascono a ogni bella stagione sotto lo stesso ombrellone) della demonologia renziana. Tuttavia, finora poco o nulla era stato fatto per razionalizzare, sfoltire, chiudere, vendere, accorpare questa enorme galassia di enti che, con stipendi manageriali un po’ ridotti e con qualche risparmiuccio qui e là, han continuato tranquilli a sopravvivere e in taluni casi a prosperare. Ecco perché, quando nel prossimo consiglio dei ministri del 15 gennaio verrà presentata la “Riforma Madia”, il capitolo delle partecipate susciterà una particolare attenzione.

 

In cosa consiste la riforma? I capisaldi degni di attenzione sono tre: guadagna o chiudi, il potere in mano a una persona sola, obbligo di non proliferazione.

 

Partiamo dall'ultimo pilastro: le pubbliche amministrazioni non potranno più costituire o partecipare a società (e in ogni caso solo s.r.l e s.p.a.) che non debbano costruire un'opera pubblica; non si dedichino all'autoproduzione di beni o servizi strumentali agli enti pubblici; non abbiano come oggetto sociale la produzione o gestione (anche in coabitazione con privati) di servizi di interesse generale. Questi servizi sono individuati dalla legge in modo un po' ampio e quindi è vero che difficilmente un Comune potrà produrre prosciutti, ma molte altre cose rimangono incluse. Nella bozza di decreto fin qui circolata, si parla infatti di attività di produzione o fornitura di beni o servizi che sarebbero svolte dal mercato "a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza che le amministrazioni pubbliche assumono come necessarie" per soddisfare i bisogni della comunità e "garantire l'omogeneità dello sviluppo e della coesione sociale". Beh, è facile capire che una pubblica amministrazione un po' audace può far rientrare nel concetto di tutto: da internet alla pay tv, dalle librerie ai supermercati. Manca un bel panificio in centro città? ci pensa il sindaco! Dopotutto, non bisogna essere Manzoni per capire cosa succede quando a Novembre nel giorno di San Martino manca il pane  in piazza Cordusio a Milano... Il fatto che le società in cui può partecipare lo Stato e gli altri enti debbano essere una s.r.l o una s.p.a. non è di grande ostacolo, basta trasformare quelle che oggi sono cooperative o società in accomandita. La prescrizione che le imprese con meno di un milione di fatturato o più amministratori che dipendenti debbano essere vendute o liquidate, sarà pure facilmente aggirabile tramite fusioni e accorpamenti. E' vero che la costituzione e l'acquisto di partecipazioni in società da parte di un ente pubblico deve passare il vaglio della Corte dei Conti e dell'Autorità Antitrust, tuttavia il diniego da parte della Corte non è chiaro se abbia il potere di bloccare la delibera ed in secondo luogo il Tar potrà pur sempre dire che la valutazione del Comune, della Regione o del Governo rientra nell'ambito di una inevitabile discrezionalità di alta amministrazione difficile da smontare se non nei casi più eclatanti.

 

Staremo a vedere. Un po' più efficace sembra essere il requisito "guadagna o chiudi" per quelle società che hanno chiuso in rosso 4 degli ultimi 5 anni. Anche dimenticandoci il trucchetto della fusione, stiamo parlando di casi probabilmente non frequentissimi e rimediabili con contratti di servizi più generosi. Vengono poi liquidate le scatole vuote che per 3 anni non compiono atti di gestione o non presentano il bilancio. Anche in questo caso l'alternativa della presentazione del bilancio è un'inutile scappatoia, perché in teoria basterà depositare un bilancino da foglio Excel per uscire dalla categoria a rischio. E' pur vero che le amministrazioni dovranno annualmente approntare un piano di razionalizzazione delle proprie partecipazioni sottoposto all'occhiuto vaglio dell'ennesima authority di vigilanza e che le società partecipate potranno fallire come tutte le altre. Insomma, qualcosa succederà, ma bisognerà contare molto sulla volontà politica perché la legge non venga interpretata in modo cavilloso e dilatorio.

 

[**Video_box_2**]Infine la donna sola al comando (utilizzare la vetusta espressione "uomo solo al comando" avrebbe sicuramente comportato un intervento indignato della Presidenta Onorevola Boldrini). Salvo che per le società quotate, tutte le altre avranno un solo amministratore unico a meno che i gli enti proprietari decidano diversamente per ragioni di "adeguatezza organizzativa" e pur sempre rispettando il famigerato "equilibrio di genere". Niente pensionati in consiglio e retribuzione determinata in parte avendo riguardo alla dimensione della società, in parte in base ai risultati. L'amministratore unico assicura qualche risparmio ma, salvo che in piccole società, non è una scelta gestionale intelligente. Ci sarà un motivo per il quale le imprese private hanno dei consigli di amministrazione ed è quello di far sì che il management esecutivo possa essere consigliato e controllato da suoi pari. Il problema è di eliminare il controllo pubblico e decurtare il numero di società esistenti, non dotarle di meno amministratori, anche perché rimane la solita discrezionalità, che è un po' la piaga della legge, di fare esattamente il contrario appellandosi a vaghe esigenze organizzative.

 

Mettiamola così: le intenzioni della riforma non sono malvagie (nel preambolo si fa un gran parlare di concorrenza e mercato). Sembra che il governo, però, non fidandosi del fatto che le buone intenzioni fossero prese troppo sul serio abbia lasciato delle scappatoie anche per chi ne avesse di cattive.