L'assenzio di Edgar Degas

Falsi miti

L'equivoco mistico delle droghe che aprono le porte della genialità creativa

Alfonso Berardinelli

Il nuovo libro di Sadie Plant, "Scritti sulla droga", analizza come l'utilizzo delle sostanze stupefacenti cambi chi le usa e celebra l'immagine del "genio drogato". Si tratta, in realtà, di un mito fastidioso e non vero. Almeno fino allo sviluppo di una dipendenza dalla tecnologia

Esibisco la mia incompetenza, o se volete il mio virtuoso vizio. Non ho mai fatto uso di droghe, neppure di sonniferi, e oltre che la pratica mi manca anche la teoria. Non sono andato oltre l’optalidon, che mia madre per tenersi su prendeva quotidianamente. Se ho letto il libro di Sadie Plant "Scritti sulla droga" (NERO edizioni, 282 pp., 22 euro) è per semplice curiosità tardiva, ma anche, forse soprattutto, perché il mito culturale della droga mi ha sempre dato fastidio per la sua equivoca diffusione negli ambienti letterari e artistici. Un mito che ha le sue robuste radici nella modernità, nella sua estetica e nella confusione fra irrazionalismo intuitivo e mistica, fra creatività e perdita dell’autocontrollo mentale e psichico, soprattutto a partire dal Romanticismo e con la nascita di un altro potentissimo quanto equivoco mito, il mito del genio.
 

Come ho già detto nell’articolo sul viaggio uscito in queste pagine la settimana scorsa, tra fine Settecento e primo Ottocento alla figura classica dell’artista creatore come “sapiente” si è sostituito il tipo del “genio”. Il primo era una mente sia illuminata che disciplinata, il secondo doveva le sue illuminazioni e visioni agli stati alterati di una coscienza che sprofondava in una specie di follia.
 

Con la scomparsa della mistica e della gnosi metafisica, che dai sapienti presocratici arrivava ai mistici medievali e rinascimentali, cioè da Pitagora, Empedocle, Parmenide, Eraclito, Plotino fino a san Bonaventura, Avraham Abulafia, Meister Eckhart, Pico della Mirandola, san Giovanni della Croce e Jakob Boehme, la nascita e lo sviluppo del razionalismo e dell’empirismo illuministi hanno stroncato la tradizione metafisica e mistica vista come falsa conoscenza e filosofia impossibile.
 

È a questo punto che si impone il moderno genio romantico, il poeta che grazie a una extra-razionale intuizione visionaria vede ciò che gli occhi non potrebbero vedere, né i cinque sensi saprebbero percepire.
 

Il libro di Sadie Plant parte da qui, sebbene evochi saltuariamente documenti che attestano l’uso di droghe varie nelle più antiche e arcaiche civiltà. È la moderna idea della genialità creativa che si è mescolata con la cultura delle droghe “liberatorie”. È così che è nato anche l’“equivoco mistico” delle droghe che aprono le porte della genialità. Un equivoco che si è sempre più diffuso nelle sottoculture giovanili, pur avendo avuto dei nobili precedenti in famosi scrittori dell’Ottocento e del Novecento: da Coleridge, De Quincey e Poe a Baudelaire, Rimbaud, Stevenson, Conan Doyle, Freud, Artaud... Anche Sartre e Elsa Morante hanno scritto filosofia e letteratura sotto l’effetto delle anfetamine.
 

Il maggiore e più grottesco errore è stato comunque il falso induismo e buddhismo a base di droghe della Beat Generation e dintorni, mentre chiunque dovrebbe sapere che nello yoga e nello zen è vietato bere anche un solo bicchiere di vino. Nessuna ebbrezza alcolico-dionisiaca, dunque. L’oblio calato tre o quattro secoli fa sulle tradizioni mistiche e le loro rigorosissime discipline, ha dato spazio all’alleanza distruttiva tra genialità artistico-visionaria e uso di droghe.
 

Un po’ brutalmente si può dire che in Occidente la questione sia nata in un modo per concludersi in un altro. All’inizio scrittori geniali hanno usato droghe cercando di addomesticare l’“ispirazione” creandola a comando. Alla fine, fra anni Sessanta e anni Settanta, qualunque mitomane e nevrotico ha usato droghe aspettandosi di diventare un genio. Naturalmente queste mitologie diventate di massa vanno distinte dalla storia (ben illustrata da Sadie Plant) non solo della medicina e della chirurgia, ma anche della guerra, i cui crimini sono spesso compiuti sotto l’effetto di potenti droghe.
 

L’uso di sostanze psicotrope ha introdotto una novità fondamentale nella costituzione antropologica dell’umanità modernizzata: la possibilità di fornire piacere e di eliminare il dolore in quanto esperienze fondamentali del nostro rapporto con la realtà. Le droghe significano (come anche molte nuove tecnologie) attenuazione o svuotamento del senso di realtà. Chi continua a ripetere che non tutte le droghe sono uguali dice una mezza verità. Certo la morfina non è la cocaina e tutte e due non sono la cannabis. Ma ogni droga (come il gioco d’azzardo) provoca assuefazione e crisi di astinenza, oltre a produrre emozioni e percezioni vuote di esperienza personale e di contatto con il mondo esterno.
 

Oggi mezza umanità è sotto droga e la criminalità organizzata ci fa affari d’oro. Temo però che la droga del futuro più forte, diffusa e culturalmente più invincibile siano le tecnologie mediatiche e l’intelligenza artificiale. Una droga, questa, che provoca assuefazione in tutti e crisi di astinenza perfino nei bambini di tre o quattro anni. Nonostante tutto, la storia dell’uso di droghe è stata accompagnata da giudizi negativi, condanne e sensi di colpa. L’uso intensivo di tecnologie derealizzanti è invece accompagnato dall’idea di dovere, comodità, progresso e bene futuro. E chi oserà giudicare, condannare e combattere una schiavitù volontaria così virtuosa?

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