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Vita e opere

Il taccuino dei sogni di Pavel Florenskij, il “Pascal russo” eliminato da Stalin

 Elisa Veronica Zucchi

Al confine dei mondi (edito da Aragno, trad. e cura di Lucio Coco) raccoglie sogni, le coincidenze e riflessioni del pensatore russo ucciso dal regime sovietico 

In Pavel Florenskij, uno fra i maggiori pensatori del XX secolo, martire del terrore staliniano, vita e opere, tragicamente interrotte, si compenetrano. Nel poliedrico filosofo, teologo e matematico russo, nonché sacerdote ortodosso, la duplice coscienza, esistenziale ed estetica, si radica nel mistero, trovando una delicata armonia dialettica, grazie a un intelletto volto all’amore e sostenuto dalla fede. In una piega del tempo che, come quella di un ventaglio, si apre e si chiude, l’arcano fa cenni di lontano; indica, nel presente, un eccesso di possibilità.

È da poco in libreria Al confine dei mondi (Aragno, trad. e cura di Lucio Coco): un taccuino, fino a oggi inedito, in cui il “Pascal russo” (così venne chiamato) annota i propri sogni, le coincidenze e riflessioni; si avvolgono gli uni sulle altre, come filando una trama comune, ma rovesciata, guardata dall’interno. L’oggetto della conoscenza sfugge in quanto è visibile e invisibile insieme. Annota Florenskij: “Quando ti addormenti, allora subito ti accorgi che l’Io si duplica. Un Io esiguo, piccino, dal punto di vista dell’altro Io, sembra lontano, lontano, minuto, insignificante”. Non è che lo stesso essere, contemplato dall’altro versante. Mentre sogniamo già entriamo nell’invisibile. Il punto di fuga in cui convergono i due mondi – il visibile e l’invisibile – conduce a una “zona intermedia”, paragonabile, nella percezione, all’“esperienza della soglia” che il sognatore compie nel dormiveglia o nel sogno: egli è sveglio e, al contempo, non è sveglio; dorme e non dorme. Non per caso il filosofo russo riflette sull’ambiguità di Amleto, nel saggio eponimo, e sulla sua tragica lacerazione: il principe di Danimarca si trova – osserva – a dover scegliere fra due idee di giustizia, fra la coscienza degli antenati e una nuova coscienza, cristiana, e, non potendo decidersi, si finge folle: dunque è e non è. Non ci svela il teatro una zona di confine? Ma qual è la materia che viene trasformata in sogni? È la follia simulata una reale possibilità di fuga? Florenskij cerca quel che non si è rivelato ad Amleto, che pur sembra aver compreso ogni segreto ed essersi liberato dai “ceppi del visibile”. Il cuore del potente pensatore russo spia il fulgore acquattato, anela a un paesaggio originario, desidera “lo splendore di Emmaus (l’apparizione del Cristo Risorto) e del Tabor (la sua trasfigurazione gloriosa)”. Il pensatore russo scorge il mondo spirituale, sfuggendo gli abbagli che impaludano fuori dal mondo. La sua è una metafisica della luce, che rifulge dalle icone, dai cui volti il Pascal russo è affascinato, poiché sono “manifestazioni di una certa realtà” (a tal proposito, ricordiamo il bellissimo saggio Le porte regali, Adelphi, 1977, a cura di Elémire Zolla).  

L’accesso all’invisibile ci trasporta dal reale all’immaginario e permette alla realtà plissettata di manifestare il suo “misticismo inconscio”, attraverso un linguaggio di coincidenze, percezioni subliminali, ricordi, presagi, giacché “il cuore aspetta il miracolo”. Florenskij, che amava la musica ed era amico di Marija Judina, la pianista apprezzata da Stalin, mentre accostava la struttura ritmica della risacca marina alla fuga di Bach, di cui osservava lo stile rigoroso e senza disperazioni o estasi, contrapponendolo a quello di Beethoven, ammirava “la chiarezza e l’autocoscienza infantile” di Mozart. D’altronde l’infante non è veramente desto. Così, per essere chiari è necessario vivere di nascosto, nell’ascolto di un “ritmo infinito”, perché la chiarezza è visibilità e invisibilità insieme, il suono di una infinita (originaria) autocoscienza.
 

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