alla biennale di venezia
Scacciare gli artisti israeliani ha un pessimo precedente. Sangiuliano e il vero Dissenso
Oltre 15 mila firme e l’accusa di “Genocidio” per chiedere l'esclusione di Israele dalla Mostra biennale di arti visive di Venezia. Attorno al ministro, molto silenzio
Nei Giardini della Biennale di Venezia si è da poco conclusa, novembre 2023, una mostra documentale che da sola basterebbe a drammatico monito. Titolo: “8 e la Shoah dell’arte - Entartete Kunst Arte degenerata”. Nello spazio InParadiso Art Gallery, la mostra raccontava la vicenda dell’artista ebreo tedesco Otto Freundlich ucciso nel campo di sterminio di Majdanek. Le sue opere e di altri artisti ebrei, ma non soltanto, erano finite in quell’immondo inferno buio intitolato “Arte degenerata” voluto da Hitler nel 1937. Mettere a tacere gli artisti in base alla loro appartenenza razziale, anche se oggi si chiama boicottaggio, è suprema inciviltà. Specie in un luogo all’arte sacro come la Biennale.
Eppure è ciò che pretende ottenere una petizione, una lettera indirizzata alla Fondazione Biennale, sostenuta da migliaia di firme di addetti ai lavori (livori) che chiedono l’esclusione di Israele e degli artisti israeliani dalla imminente sessantesima edizione della Mostra biennale di arti visive. Che, per grottesco ma non innocente caso, si intitolerà quest’anno “Stranieri ovunque”. Tranne che israeliani, però. Detto en passant: non solo il nazismo ce l’aveva con l’arte degenerata, lo stalinismo fece lo stesso perseguitando le avanguardie: è un vizio non soltanto estetico – come si tende di solito a minimizzare, ma solo nel caso di Stalin, non di Hitler – ma innanzitutto politico e antidemocratico di chi si pretende giudice ideologico delle scelte degli altri e unico depositario di una intoccabile verità. Ma il monito di Otto Freundlich evidentemente non basta, così sono già oltre quindicimila gli esponenti del mondo culturale e artistico che si ritiene giusto e libero (ma della partecipazione dell’Iran nulla si dice: un appello di qualche tempo fa è caduto nel nulla) che chiedono di escludere Israele e gli artisti israeliani dalla Biennale Arte 2024. Uniti nel cupo acronimo Anga (Art Not Genocide Alliance), hanno scritto alla Fondazione che va esclusa “qualsiasi rappresentazione ufficiale di Israele sulla scena culturale internazionale”, perché sarebbe “una legittimazione delle sue politiche genocide a Gaza”. Dall’arte degenerata agli artisti degenerati perché esponenti di un paese democratico (niente da dire su Mosca?) il passo è pericoloso ma breve. Come ha sintetizzato su HuffPost Pierluigi Battista, è “una forma di pulizia etnica dei prodotti culturali… l’ultima frontiera dell’intolleranza censoria”.
Alla quale, fortunatamente, ha deciso di rispondere il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano – in un rabbrividente silenzio del mondo della cultura e persino del mondo politico che si professa amico di Israele, va sottolineato – che ancora ieri da Napoli ha dichiarato: “La cultura è lo strumento che anche in momenti di crisi deve gettare dei ponti di dialogo fra posizioni che apparentemente in politica possono sembrare inconciliabili. Quindi respingiamo con la massima determinazione al mittente questa richiesta. Israele ha diritto a essere con il suo padiglione alla Biennale”. Ribadendo così la presa di posizione di due giorni fa: “Israele non solo ha il diritto di esprimere la sua arte ma ha il dovere di dare testimonianza al suo popolo, proprio in un momento come questo, in cui è stato duramente colpito a freddo da terroristi senza pietà”. A spiegare la gravità dell’iniziativa della cancellazione di Israele da una delle principali manifestazioni artistiche mondiali, se dovesse raggiungere il suo scopo, basterebbe notare che i padiglioni permanenti nazionali nei Giardini della Biennale sono, sotto il profilo giuridico, equiparati a delegazioni estere e godono quindi di extraterritorialità. Il padiglione di Israele fu edificato nel 1952 dal grande architetto Zeev Rechter, uno dei costruttori di Israele. Costringerne la chiusura via boicottaggio sarebbe un incidente diplomatico, oltre che un insulto alla storia dell’architettura. Fa dunque bene fa Sangiuliano a ricordare che “la Biennale d’arte di Venezia sarà sempre uno spazio di libertà, di incontro e di dialogo e non uno spazio di censura e intolleranza”. Del resto fa parte della sua stessa storia, che spesso ha saputo schierarsi per la libertà e la democrazia, senza confonderle ideologicamente come si tenta di fare ora. Fu così quando la Biennale volle schierarsi a favore della libertà come nel 1974, con i Murales di Sebastian Matta in occasione della manifestazione “Libertà al Cile” promossa dall’ente, che segnò un punto fermo importante nel nostro paese. Più ancora lo fece con la Biennale del Dissenso nel 1977, che grazie al coraggio culturale e politico dell’allora presidente, Carlo Ripa di Meana, spezzò il muro di silenzio che opprimeva l’arte, la cultura e intere società del blocco sovietico. In favore della libertà, non del boicottaggio. L’imminente Mostra si intitola “Stranieri Ovunque”. Ma qualcuno rischia di essere più straniero di altri.
Intervista a Gabriele Lavia