Benedetto Croce - foto Wikipedia

Storia

Quegli intellettuali che rinnegarono Croce per avvicinarsi al fascismo

Giovanni Belardelli

Nel catalogo della nuova casa editrice Fuoriscena si fa notare un volume sui due manifesti di Giovanni Gentile e di Benedetto Croce. Sebbene sia lodevole la riedizione di testi storici del genere, c'è mancanza di cura per editoriale: due manifesti non rappresentano due Italie

Nel catalogo della nuova casa editrice Fuoriscena, tra un libro sull’“apartheid in Palestina” e un altro del magistrato Nino Di Matteo sulla “trattativa stato-mafia” (che entrambi, temo, avrei difficoltà a leggere), si fa notare un più sobrio volume sui due manifesti degli intellettuali dell’aprile-maggio 1925: quello scritto da Giovanni Gentile e l’altro di risposta che venne redatto da Benedetto Croce. Sono due testi importanti della nostra storia, non facili da reperire (un’edizione dell’editore Aragno di qualche anno fa ha circolato assai poco), in cui si materializzavano due concezioni molto diverse dei compiti dell’intellettuale. Sarebbe dunque da salutare con molto favore la ripubblicazione, non fosse la modalità un po’ troppo disinvolta con cui questo libro viene presentato ai lettori. Non si capisce, ad esempio, per quale ragione si sia ripreso il testo gentiliano direttamente dal Popolo d’Italia, non utilizzando dunque la versione, resa nota vari anni fa dallo storico Emilio Gentile, in cui erano indicate le parole aggiunte o tolte direttamente da Mussolini, al quale l’autore aveva sottoposto il testo prima della pubblicazione (circostanza, come si capisce, molto rilevante quando si parli delle responsabilità degli intellettuali, che però ai lettori di questo libro rimane ignota). Ai testi dei due manifesti, abbastanza brevi, sono stati aggiunti articoli dell’epoca scelti però con un criterio che resta difficile da capire. Ma questi e altri possibili rilievi non si sa bene a chi indirizzarli perché il libro non ha l’indicazione di un curatore purchessia: i due storici coinvolti (Giovanni Scirocco e Alessandra Tarquini) non sembrano avere questa veste e firmano soltanto due brevi introduzioni. Introduzioni che, a parte qualche perplessità (ad esempio laddove Tarquini invita tutti noi italiani ad “assumerci le nostre responsabilità” di fronte al fascismo, riprendendo il luogo comune, più moralistico che storico, sui mancati conti col nostro passato), hanno soprattutto un difetto: data la sinteticità non riescono a fornire un’adeguata contestualizzazione storica al lettore non specialista. 

Anzi il libro rischia, questo lettore, di metterlo fuori strada riproponendo l’idea erronea, ma che molto ha circolato in passato, secondo la quale quei due manifesti fotograferebbero due Italie contrapposte, due schieramenti intellettuali – l’uno fascista e l’altro antifascista – destinati a conservarsi tali e quali per tutto il ventennio. Al contrario, le cose stanno in modo ben diverso poiché si verificò negli anni una significativa trasmigrazione di vari firmatari del manifesto di Croce in direzione del fascismo: un fenomeno, questo, a cui nel libro non si fa il minimo cenno ma che ci dice molto sulle capacità di attrazione del regime e sui caratteri di una dittatura che, nel campo delle attività culturali, ottenne successi notevoli. Per alcuni, certo, l’aver firmato il manifesto Croce funzionò come un marchio d’infamia, che anche dopo anni poteva impedire di ottenere la tessera del partito, ciò che dal 1933 impediva di partecipare ai concorsi pubblici. In tanti altri casi quel marchio poté essere cancellato grazie a una chiara accettazione del regime, per motivi di opportunità ma anche per una condivisione dei suoi orientamenti e delle sue politiche. È il caso del giornalista Giulio Caprin che, dopo aver rischiato di essere estromesso dal Corriere della Sera per aver firmato il testo crociano, proseguì senza intoppi la carriera nel giornale, avendo tra l’altro il discutibile “onore” di pubblicare nel 1938 un editoriale dedicato agli scritti di Mussolini. È il caso di Sibilla Aleramo, anche lei firmataria del medesimo manifesto e poi per anni regolarmente finanziata dal regime; o di un celebre filologo classico come Giorgio Pasquali, che infine riuscì a entrare nella più prestigiosa istituzione culturale creata dal fascismo, l’Accademia d’Italia, avendo anche lui alle spalle quella firma del 1925.

Tra quanti seguirono un tragitto del genere, uno dei casi più significativi è quello di Emilio Cecchi, considerato allora e successivamente un maestro del giornalismo culturale, il quale al fascismo si avvicinò con prudenza, senza eccessi, quasi con ritrosia, trovandosi a un certo punto a essere (e a voler essere) coinvolto fino in fondo. La sua marcia di avvicinamento durò all’incirca un quindicennio, superando un tornante decisivo alla fine degli anni Trenta con alcune corrispondenze dall’America pienamente allineate al razzismo del regime. Infine fu coronata dal pieno successo nel 1940 con la nomina ad accademico d’Italia per la quale l’ex firmatario del manifesto Croce ringraziava per lettera Giuseppe Bottai: “So quanto, in questi anni, tu hai fatto per me; e so bene che, insieme a Mussolini e Federzoni [allora presidente dell’Accademia d’Italia], tu sei stato il mio nume tutelare; ho troppa pratica delle cose umane per non rendermi conto che, più di tutto il mio modesto lavoro e della mia volontà di far sempre meglio, ha valso per me la vostra bontà”. Poco prima aveva ottenuto l’iscrizione al Partito fascista, con la retrodatazione della tessera al marzo 1925, quasi a voler cancellare retrospettivamente la sua firma al manifesto antifascista di Croce

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