Kyiv (Foto di Andriy Nestruiev, Unsplash)

il romanzo

Nell'Ucraina di Žadan, dove si scontrano nonsense e utilitarismo sovietico

Marco Archetti

Prima dell’invasione era “Anarchy in the UKR”. Pagine di vodka e hashish, sguaiate al punto giusto, sfrenate e toccanti, a valanga fra treni, autostop e serate stesi sull’erba, seguendo le tracce degli anarchici ucraini, mitizzando e smitizzando simboli ed eroi sovietic

Che odore ha la vita vera? La vita adulta, s’intende. Ecco: quella vita, esattamente, di cosa sa? “Di tavola calda per camionisti, di tute da lavoro sporche di grasso, e – inaspettatamente – di gomma da masticare jugoslava”. La madeleine è la cingomma titoista. Poi c’è tutta la paletta stradaiola ucraina, la densità sensoriale della vita in un paese in cui, se accadono cose interessanti, “accadono nelle stazioni ferroviarie”.

E’ un’Ucraina pre-aggressione putinista, quella che racconta Serhij Žadan in “Anarchy in the UKR” (Voland, pp. 195, euro 19, traduzione di Giovanna Brogi e Mariana Prokopovyč). Anno 2005, un’Ucraina spaesata e vivace, impantanata e potenziale, malconcia e inclinata al futuro, che nella prima di quattro parti in cui il romanzo è diviso, prende vita in 50 pagine di un vigoroso recitar cantando, una “Like a rolling stone” che fluisce di coscienza e di incoscienza allo stesso tempo: il talento dello scrittore di Charkiv si snoda in tutta la sua incontentabilità, in flirt col nonsense e l’assurdo  – si tratta della sua seconda opera dopo “Depeche mode” uscita nel 2004, ugualmente rombante e rullante ma ancora acerba (“a chi, dei miei amici, si può vendere il busto di Molotv?”). Pagine di vodka e hashish, sguaiate al punto giusto, sfrenate e toccanti, a valanga fra treni, autostop e serate stesi sull’erba, seguendo le tracce degli anarchici ucraini, mitizzando e smitizzando simboli ed eroi sovietici, tra comparse vivacissime (anche quelle sfrante, bellissima la breve storia di un tizio che a un certo punto li raccatta in auto, “pieno di amarezza e di alcol”, in una giornata “che sembrava non avere mai fine”), e giù una sfilza di ragazze indisponibili, bar svuotati, e tutta la memoria che vola all’indietro ben sapendo che “ogni ritorno all’infanzia finisce male” – la frase da tatuarsi è questa. 

La seconda e la terza parte vivono di ricordi di giovinezza, di Urss, di cinema, di musica. C’è anche Lou Reed, “quel vecchio frocio” che sa raccontare come nessun altro. E Neil Young, con le sue “ciocche di capelli unti e i jeans vecchi e consumati”. E l’illusione che ti regala “la musica ad alto volume, l’euforia che provi nello stare accanto ai grandi amplificatori neri, che ti disorienta per sempre, ti torce le ossa, la musica picchia prima di tutto sulla schiena” (seconda frase da tatuare, ma anche il seguito non è male: “Dopodiché non riesci più a camminare per le strade come prima, la musica ti storpia”).

L’Ucraina come una pista da corsa per la memoria, il racconto, il sesso, la nostalgia, la negazione, perché tutto sembra sul punto di cambiare ma tanto non cambierà. E tra contrabbandieri, panzoni, oligarchi, prostitute di paese, zingare professioniste, è tutto come in un film sui suoi anni 80, film che Žadan vagheggia e costruisce come un blues di cose proprie, pieno di sventatezza, gioia, idiozia e ingenuità mischiate quasi fosse un cocktail, in medesima misura; di sfondo, l’utilitarismo sovietico, nell’architettura e nelle scritte, nelle bandiere e nella propaganda, l’amore per il calcio in assenza di sesso e i rientri notturni pieni di alcol – l’adolescenza è un paese per barcollanti.

Fa venire un po’ i brividi leggere oggi certi passaggi, come quello sui tunnel della metropolitana: “In caso di bombardamento non scenderò mai nei tunnel della metropolitana, so già come andrà a finire, non c’è da aspettarsi niente di buono, basta pensare a quella di Berlino che nel ’45 venne allagata con cura”. 

La quarta parte è una playlist della memoria, dieci dischi fino a quello dei Sex Pistols rielaborato nel titolo del romanzo. Tra le note, il ricordo di un amico poeta “allegro emigrante” che della vita ha scelto i due bocconi migliori, la poesia e l’alcol.

Serhij Žadan affonda i denti nella giovinezza e sputa una storia di sé stesso che è la storia di un paese intero, con le sue vertiginose aspettative e le sue spossanti inerzie. Aggira l’autofiction e la sua terraferma più concava e improduttiva, non cade nella poeticheria delle linee d’ombra e fa jam session d’alta fattura – Il convitto, Mesopotamia, La strada del Donbas arriveranno di lì a pochi anni, a costruire un ritratto di un paese come non se ne fanno più.

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