Particolare dalla “Morte di Sardanapalo” di Delacroix, interpretazione romantica della crudeltà assira 

Stragi di colpevoli e di innocenti

Macelleria, flagelli, Grand Guignol. Le mille facce della guerra

Siegmund Ginzberg

Gli assiri erano i peggiori, ma i cinesi non scherzavano. Così i popoli antichi raccontavano le loro crudeltà per fare propaganda. La religione strumentalizzata e il mistero dei massacri biblici

C’è un antico testo cinese che gronda sangue, teste e orecchie mozze. Si intitola Shifu, la conquista. La conquista, nel secondo millennio prima di Cristo, del leggendario regno di Shang, culla della civiltà cinese, da parte della dinastia mezzo barbara degli Zhou. E’ un capitolo del Yi Zhou Shu, “testi lasciati in disparte”, sulla Zhou, durata mezzo millennio, la prima dinastia di cui ci sia storia scritta. Erano stati “lasciati in disparte” perché ne davano un’immagine sgradita. E’ un testo talmente esagerato che i filosofi confuciani lo rifiutarono. Faceva a pugni con la loro concezione di guerra giusta e umana, accettabile, di civiltà ispirata. Preferivano non crederci. Così come siamo esterrefatti dagli orrori delle guerre in Ucraina e Gaza, e ce la caviamo pensando che si tratti di esagerazioni propagandistiche degli avversari, o, peggio, facciamo finta di nulla.

  
“Se uno dovesse credere a tutto quello che c’è scritto nei libri di storia, sarebbe meglio che i libri di storia non esistessero affatto. Io accetto solo due o tre righe [di quel capitolo]. Come è possibile che il sangue scorresse a fiumi quando [come sostiene lo Shifu] era il più benevolo a muovere guerra al più crudele?”, annota Mencio. Per il massimo interprete di Confucio è semplicemente inconcepibile che siano i buoni a essere più cattivi e crudeli dei cattivi. Va contro ogni logica. La tradizione di considerare il testo “eccessivo”, non compatibile con le pratiche nobili e cavalleresche della guerra cinese, è proseguita imperterrita per almeno due millenni e mezzo. Ma già nel I secolo, il libero pensatore e filosofo della natura Wang Chong, il Lucrezio cinese, non si faceva infinocchiare dalla filosofia della storia moralista dei confuciani. 

   

“199.779 orecchie mozze, 177.779 uccisi, 310.230 prigionieri”. Chissà qual era l’olezzo dove venivano praticate le cerimonie da macelleria

   
Eppure le cifre sono precise. Sin troppo precise. Quasi come l’elenco giornaliero delle perdite militari che ogni parte attribuisce all’altra, e di vittime civili che sostiene di aver subito. “Il re Wu [di Zhou] aveva fatto campagna in tutte e quattro le direzioni. Aveva domato 99 paesi che gli si opponevano. Erano stati registrati 199.779 orecchie mozze, 177.779 uccisi, 310.230 prigionieri. 652 paesi si erano sottomessi volontariamente”. “Il re Wu scese dal suo cocchio e impose allo scriba Yi di leggere ad alta voce il documento [che riferiva le sue gesta] al Cielo. Quindi uccise i 100 odiosi ministri [letteralmente “odiati dal Cielo”, ben più che impopolari], fece decapitare e offrì in sacrificio i 60 principini della casa reale e i maestri delle cerimonie e le loro 40 famiglie. Poi fece allineare alla Porta Sud [della capitale di Zhou] i prigionieri da sacrificare. Li fece rivestire tutti e gli fornì delle fasce di seta. Ma prima fece portare, e ammucchiare in un enorme cumulo, le orecchie mozze provenienti dai molti paesi conquistati. Mentre i suoi maestri delle cerimonie reggevano il pennone bianco cui era appesa la testa del re di Shang e quello rosso a cui erano appese le teste delle sue due consorti […]”. 


Passarono cinque giorni prima che si concludessero le cerimonie. Lo Shifu continua a lungo così, ripetitivo. Aleggia dalla pagina una puzza spaventosa, disgustosa, vomitevole. Chissà qual era l’olezzo laddove venivano praticate le cerimonie da macelleria, con annessi fumi di carni bruciate nelle cerimonie di purificazione. Viene da vomitare a leggere. Figurarsi a essere presenti. Non migliora leggere che il tutto avveniva al suono di musiche celestiali, di arie suonate da centinaia di flauti, tamburi e campane di bronzo. Lo Shifu elenca nove diverse melodie. Una è intitolata al Grande Yu, il re mitico che per primo controllò le acque, tre melodie si chiamano “Brillante, brillante”, un’altra è dedicata al “Grande sacrificio”. La civiltà Shang aveva una raffinatissima cultura musicale, ci sono rimasti i testi e gli strumenti in bronzo. Né consola che prima di ogni esecuzione di massa venissero pubblicamente letti e denunciati i crimini, le malefatte e le crudeltà commesse dai giustiziandi, per questo “odiosi al Cielo” e, si presume, al proprio stesso popolo. 

  
Se il nemico è perverso e crudele, ciò giustifica, anzi esige che venga punito crudelmente. “E’ colpa loro se abbiamo dovuto ammazzarli” è la costante di tutte le punizioni e vendette esemplari, dalla Cina della notte dei tempi, al medio oriente antico, alle guerre in corso. E’ sempre stata la via maestra per superare obiezioni, rimorsi, dubbi di coscienza, fantasmi sgraditi che possano turbare il sonno dei Giusti. Sempre che ci sia una coscienza da turbare.

 
Una per una vengono elencate le offerte di orecchie mozze portate al re dai comandanti, nel corso delle successive campagne. Immancabilmente si rende conto, con ripetitività ossessiva, del numero delle teste mozze e dei carri catturati inviati volta per volta al sovrano. A tratti il testo è contraddittorio. E’ zeppo di date, secondo i calendari lunari antichi. Di nomi di re, duchi e nobili sconfitti. Date e nomi sono sfasati, non quadrano. Ad esempio, ci sono, a poche righe di distanza, due versioni opposte su che fine abbia fatto il sovrano di Shang. Si dice che si sarebbe immolato nel fuoco dopo essersi fatto cucire nelle vesti le migliaia di giade e gioielli del suo tesoro. Ma allora come avrebbe fatto il suo nemico ad appenderne la testa ai propri pennoni? Un’ipotesi è che gli scribi, un po’ perché terrorizzati dall’esser colti in fallo dal committente, un po’ per compiacere il potente di turno, un po’ per pigrizia, un po’ per incompetenza (succede nelle migliori famiglie) abbiano messo insieme alla rinfusa spezzoni di fonti diverse, rapporti inviati al sovrano dai diversi feudatari alle sue dipendenze, nel corso di campagne durate mesi, anzi anni. Ma è anche possibile, checché ne dicano i confuciani inorriditi da tanto insulto alla purezza di modi dei loro antichi predecessori Zhou, che ci sia molto di vero.


L’originale era scritto su strisce di bambù. Viene addirittura il sospetto che le abbiano smazzate. Il testo continua a essere un puzzle per gli studiosi. Ha conosciuto interpretazioni e tentativi di traduzione e di correzione a non finire. La migliore e più articolata forse è ancora quella che il sinologo di Stanford Edward Shaughnessy ne diede negli anni 80 del secolo scorso. Più di recente è stata aggiornata e completata, con nuove possibili interpretazioni. Yegor Grebnev, sinologo di origine ucraina all’Università di Oxford, è tra coloro che notano la similitudine di formule fisse tra questo testo cinese e gli assai più noti e studiati testi antichi mediorientali (“The Record of King Wu of Zhou’s Royal Deeds in the Yi Zhou shu in Light of Near Eastern Royal Inscriptions”, in Journal of American Oriental Society, 2018). Enrico Badali, Mario Liverani e una equipe di altri studiosi della Sapienza hanno condotto un’analisi degli Annali di Assurnasirpal II sulla scorta della morfologia delle fiabe russe di Vladimir Propp.                                

   

Gli assiri “non erano solo brutali, erano fieri della loro brutalità”. Assurnasirpal fa scorticare il nemico e ne drappeggia la pelle sulle mura

                                                              
Colpiscono le assonanze. Simili formule. Stessa reiterazione di dettagli truculenti, orripilanti, di macelleria. Stesso compiacimento, stessa poetica da Grand Guignol, da orrore spettacolo, come andava di moda nell’ottocentesco teatro parigino del nono arrondissement. Qui i testi non sono uno solo, ma migliaia. In molte lingue e molte culture. I più cattivi di tutti sono gli assiri. E se ne vantano. “Non erano solo brutali, erano fieri della loro brutalità”, il modo in cui l’ha messa uno studioso tedesco. Ecco, per fare un solo esempio tra le centinaia possibili, come Assurnasirpal II racconta le sue campagne militari. E’ una litania infinita di nomi di città conquistate, di terre raggiunte attraverso passi montuosi insuperabili, sentieri impercorribili dove è costretto a far smontare i suoi carri da battaglia, fortezze impregnabili come nidi di aquile. E a ogni tappa quasi la stessa formula: “Ho tinto di rosso, come fosse lana, con il loro sangue le loro montagne […] Ho raso al suolo, distrutto, bruciato le loro città [… ] Ho massacrato molti e portato via prigionieri i giovani, buoi, muli, greggi, vino e pentole di rame […] Ho ucciso con la spada i loro combattenti […] Ho mozzato le loro teste e ne ho fatto un mucchio […] Gli altri si sono rifugiati sulle montagne a farsi nidi come fossero uccelli […] poi sono scesi e si sono sottomessi, e su di loro ho imposto tributi, tasse, e lavori forzati […] Bubu, figlio di Babua, figlio del capo della città di Ništun, l’ho fatto scorticare e ne ho drappeggiato la pelle sulle mura […]”. 

   
Nella Res gestae in cui rivendica i propri meriti indirizzandosi di persona al suo Dio, Assurnasirpal ripete in sette occasioni di aver fatto bruciare vivo qualcuno (in sei casi precisa che si tratta di ragazzi e fanciulle, in un caso parla di giovani, senza precisare ulteriormente); in cinque occasioni cita impalamenti (presumibilmente di combattenti): due volte cita la mutilazione di mani e dita, due volte il taglio di braccia e gambe, una volta quello di nasi e orecchie; una volta dice che li ha fatti seppellire vivi, due volte che li ha fatti scuoiare (punizione riservata ai leader). I sopravvissuti devono abbandonare le loro case e sono deportati in posti remoti. 

  

Gli antichi egiziani, molto più civili dei brutali assiri, vengono raffigurati nei rilievi del tempio di Ramsete III ad ammucchiare mani e genitali mozzi

  
C’è però una differenza tra i testi assiri e quelli cinesi. I cinesi si limitano a raccontare. Gli assiri mostrano anche il filmato. O per essere più esatti l’immagine, incisa in pietra. Gli manca solo il sonoro. Una ricerca dell’Università di Heidelberg condotta da Ariel Bagg cataloga 22 tipi di atrocità connesse alla guerra e alla conquista, raffigurate nei bassorilievi dei palazzi di Ninive o in altri media visivi. Vengono analizzate e illustrate una per una. Fa una certa impressione anche il solo elenco: riempire un fiume con cadaveri di soldati; ammucchiare corpi (morti, ma anche assieme ai vivi); innalzare torri di teste mozze; appendere teste ai rami, spiaccicare vivi; cavare occhi dopo una battaglia; mutilare; bruciare vivi; impalare; scuoiare vivi e stendere la pelle sul muro; appendere la testa al collo; stritolare le ossa degli antenati; esibire in catene con anello al naso e corregge; strappare la lingua; decapitare ed esibire la testa mozza; macellare come un agnello (eviscerare); smembrare. I primi 18 casi riguardano combattenti, o dirigenti, o comandanti, o addirittura il capo dei nemici, come nel caso della testa del re elamita Tenumann presentata ad Assurbanipal. Le ultime quattro categorie presentano esplicitamente atrocità commesse contro la popolazione civile: bruciare adolescenti e ragazze; fare a pezzi dopo giustizia sommaria; impalamento collettivo sotto le mura di una città assediata (presumibilmente di parenti degli assediati). Gli antichi egiziani, molto più civili dei brutali assiri, vengono raffigurati nei rilievi del tempio di Ramsete III a Medinet Habu ad ammucchiare mani e genitali mozzi. Mentre ineccepibili scribi ne fanno diligentemente la conta, con stilo e tavoletta. Riecco l’ossessione per la precisione numerica! Per quanto riguarda specificamente le decapitazioni, un saggio serio, magnificamente illustrato dell’archeologa siciliana Rita Dolce, vi spiegherà tutto quello che non avete mai osato chiedere (“Perdere la testa”. Aspetti e valori della decapitazione nel Vicino Oriente Antico, Espera 2014). Le antiche pietre rivelano teste da esibire, teste con cui danzare, teste da collezionare, teste con cui giocare… 

  

Nei bassorilievi di Ninive mancano scene di stupro e di eccidio dei bambini. Non erano atti autorizzati dal sovrano e prescritti dalla divinità

  
Annali e iscrizioni cuneiformi sono incise su tavolette. Potrebbero a rigore essere considerate didascalie delle rappresentazioni visive. Ma non sempre è agevole collegarle. Le lastre che ricoprivano le pareti dei palazzi di Ninive sono ad esempio disperse ai quattro angoli del mondo, dal Louvre al British Museum, al Vorderasiatisches di Berlino, al Metropolitan di New York, ai Musei vaticani. Molte sono andate perdute, sono affondate mentre venivano trasportate dai “civili” rapinatori di arche perdute. Ariel Bragg si meraviglia che, tra i bassorilievi da lui catalogati, non ci siano scene di stupro. Forse era un’atrocità talmente ordinaria che non vale la pena rappresentarla. Un altro studioso ipotizza che non venissero considerati dai nerboruti e barbuti soldati assiri atti eroici di cui menar vanto (e soprattutto non atti autorizzati dal sovrano e prescritti dalle divinità, come invece lo erano le decapitazioni e il resto). 


Altra cosa assente è l’eccidio dei bambini, la “strage degli innocenti”, che invece sarebbe diventato nei millenni successivi uno dei pezzi forti dell’iconografia cristiana. Ordinaria amministrazione anche quella? Ci sono però, rimesse insieme dagli studiosi in base alle raffigurazioni e frammenti sparsi per il mondo provenienti dalla sala “L” del Palazzo nord di Assurbanipal, rappresentazioni di sventramenti di donne incinte. Nello specifico si tratterebbe di atrocità commesse contro donne arabe, il cui ventre gonfio viene aperto con una spada mentre i loro uomini che cercano di intervenire per impedirlo vengono uccisi da altri soldati assiri.

 

Presumibilmente si tratta di donne arabe, perché la vicenda si svolge in un’oasi nel deserto, con palme sullo sfondo, in una tenda anziché in un edificio fortificato (le palme poi vengono, in un pannello successivo, tagliate per togliere ai vinti ogni fonte di sostentamento), accanto ad altre scene in cui vengono raffigurati coppie di combattenti a dorso di cammello (uno che lo guida, un altro che mira con arco e frecce), mentre gli assiri, e gran parte degli altri loro avversari, combattevano coi carri tirati da cavalli, o a piedi (studiati in dettaglio da Peter Dubovský, “Ripping Open Pregnant Arab Women: Reliefs in Room L of Ashurbanipal’s North Palace”, in Orientalia, del Pontificium Institutum Biblicum, fasc. 3, 2009).

   

L’archeologia mostra come l’insediamento degli israeliti fu più pacifico di quanto dia a intendere la Bibbia. Allora perché insistere sulla ferocia?

  
Ma niente esclude che possa trattarsi invece di donne ebree. Anche le tribù di Israele erano nomadi, usavano cammelli e tende. Non sono gentili le guerre di cui tratta la Bibbia. Né quelle condotte a danno dei figli d’Israele, né quelle condotte dagli ebrei contro i loro nemici. Pullulano, tracimano atrocità in quasi ogni pagina. Tanto per restare in argomento, in II Re (15-16) si racconta di un momento di lotte e intrighi intestini al regno di Giuda, e si dice che “in quei tempi Menahem punì Taffua, uccidendo tutti i suoi abitanti, e devastò l’intero suo territorio, a cominciare da Tersa, perché non aveva voluto aprirgli le porte: punì la città e ne sventrò le donne incinte”. Qualche commentatore, ovviamente inorridito, ha cercato di spiegare la cosa in termini di pressione psicologica: la minaccia, per quanto tremenda, servirebbe da “incoraggiamento alla pace”, a convincere le città assediate ad arrendersi, rendendo obsoleti guerre e massacri futuri.

 

In “Deuteronomio”, Dio dice ai suoi: “Nelle città di questi popoli, che il Signore, Iddio tuo, ti dà in possesso, non lascerai anima viva”

   

Eppure non è solo un incidente di percorso. E’ una prescrizione che viene dal Signore in persona. In Deuteronomio 20, 10 e seguenti, Dio dice ai suoi: “Quando ti avvicinerai a una città per assalirla, proponile prima la pace. Se l’accetta e ti apre le porte, tutto il suo popolo ti sia tributario e soggetto. Ma se essa rifiuta la pace, e comincia a farti guerra, assediala. Il Signore Iddio tuo, te la darà nelle mani e allora metti a fil di spada tutti i maschi […] Tratta così tutte le città che sono molto lontane da te e che non appartengono a queste genti. Però nelle città di questi popoli, che il Signore, Iddio tuo, ti dà in possesso, non lascerai anima viva; ma voterai alla distruzione questi etei, questi amorrei, questi cananei, questi ferezei, questi evei e questi gebusei, come il Signore, Iddio tuo, ti ha comandato, affinché non vi insegnino ad imitare le loro abominazioni, che praticano verso i loro dèi”. Ecco dov’è il problema: la purezza religiosa, la non contaminazione con le altre divinità. Non per niente il primo “urbicidio”, distruzione e sterminio totale della popolazione, citato nella Bibbia, non riguarda un’etnia diversa da quella degli israeliti, ma una comunità di ebrei che si erano lasciati sedurre da altri dèi. 

   

Il problema non è la Bibbia, ma chi crede davvero che Dio, qualsiasi dio, comandi di fare la guerra e di sterminare il prossimo

   
La prescrizione dello sterminio, la distruzione totale, lo herem, la consacrazione a Dio dei nemici vinti, è un passaggio discussissimo da tutti gli esegeti biblici. Per combinazione è seguito immediatamente da una prescrizione assai più soave, dal divieto di abbattere gli alberi da frutto durante un assedio prolungato (“Potrai mangiare il frutto ma senza tagliarli”, Deuter. 20, 19). Giosuè la segue per filo e per segno nella conquista della Terra promessa, e nella distruzione di chi non si sottomette, a cominciare da Gerico. Spietato e crudele è pure Davide: “Colpì anche i moabiti: li fece stendere per terra, poi li misurò con una corda: due misure e dovevano essere uccisi, una ed erano da tenere in vita” (II Samuele, 8, 2). La cosa forse più paradossale di tutte è che secondo gli studi storici e archeologici più recenti, l’insediamento nell’Età del ferro nell’odierna Palestina delle prime comunità di coloro che nei secoli e nei millenni successivi si sarebbero definiti “figli d’Israele” fu molto più graduale e pacifica di quanto dia a intendere la Bibbia, che non è un testo di storia. Ma allora perché tanta insistenza, tanta fantasia, propaganda di ferocia? Letterarie, voli di fantasia, studi di horror sono anche le celebri lamentazioni dei Profeti di Israele. Su quel che verrà subìto dal loro popolo e sulla sorte che subiranno le città e le potenze perpetratrici. Un po’ più storico – ma sempre sopra le righe in fatto di atrocità – è il racconto delle sevizie subite quando Gerusalemme sarà conquistata e distrutta, e gli israeliti assaliti, massacrati, sterminati, deportati in massa, dagli assiri, e dai babilonesi, da Nabucodonosor, dai persiani, e via andare, fino a quando saranno massacrati e dispersi nel mondo dai nostri romani, di quando “eravamo i padroni del mondo”. 
Impressionante per un testo così sacro alla nostra tradizione occidentale, e che insegna anche come fare la pace, a convivere e fare aratri dalle spade. Il problema non è la Bibbia, ma chi crede davvero che Dio, qualsiasi dio, comandi di fare la guerra e di sterminare il prossimo. Specie se quel qualcuno, un partito fanaticamente religioso, fa parte del governo.

  

In decine di secoli di annali, un solo re sumero si vanta (o si scusa) controcorrente: “Non ho distrutto città. Non ho abbattuto mura”

   
Un interrogativo, sollevato da molti studiosi, e anche dal grande assirologo Mario Liverani, è a chi fosse rivolta tutta la propaganda, la vanteria, il Guignol esagerato di atrocità che trasuda dai testi antichi, o dai bassorilievi. Nelle migliaia di pagine, in decine di secoli di annali, un solo re si vanta (o si scusa) controcorrente: “Non ho distrutto città. Non ho abbattuto mura” (Shulgi, secondo re della terza dinastia sumera di Ur, nel Ventunesimo secolo a. C.). Gli scritti erano roba da specialisti estremi, con difficoltà a farseli capire anche l’un l’altro (da qui gli errori dei copisti). Le tavolette d’argilla erano tenute in archivi inaccessibili, o addirittura sepolte nelle fondamenta dei palazzi. I bassorilievi in teoria avrebbero potuto capirli tutti. Ma erano all’interno, spesso in quelli che si presume fossero gli appartamenti privati reali. Servivano, si è detto, ad ispirare terrore. Ma terrore a chi? Agli ambasciatori di paesi lontani venuti a omaggiare il re nella sua capitale? Agli abitanti di quei paesi lontani, a cui la ferocia degli assiri era ben nota senza che gli dovesse venire rappresentata, e che si affrettavano a scappare sulle cime dei monti e nelle gole più inaccessibili appena all’orizzonte si profilava la nuvola di polvere sollevata dai carri e dai cavalli del grande esercito? A dirgli: non vi venga in mente di alzare la mano contro di noi, ecco cosa vi faremo, a scoraggiare ribellioni (che continuarono ad esserci e moltiplicarsi secolo dopo secolo)? A tenere a bada gli assiri stessi, a raccontargli che il re sapeva il fatto suo, che l’ordine avrebbe regnato nell’impero, che i sottomessi avrebbero pagato e, magari, che le spese della guerra (e le spese della propaganda di guerra) erano coperte dal bottino? Le rappresentazioni di atrocità erano seconde solo all’esaltazione delle meraviglie architettoniche e della prosperità nel reame. Ci fossero state a quei tempi elezioni, si direbbero messaggi elettorali. 
Il sanguinario re Wu di Zhou offre teste e orecchie mozze ai propri avi, è a loro che dedica la lettura del macabro catalogo del suo scriba Yi: “Io, il piccolino [della famiglia] offro pace ai miei gloriosi antenati”. I re assiri offrono i racconti delle proprie imprese alle proprie divinità. Hanno una missione religiosa da giustificare. I re d’Israele parlano a tu per tu col loro Dio (e coi suoi profeti). “C’è uno stretto legame tra successo e legittimità. La legittimità è importante. Significa una corretta catena di relazioni tra il dio e il re e il re e il popolo. Quando un re manca (o perde) legittimità non sarà più in grado di assicurare ordine e prosperità”, spiega Liverani. Ha ancora più bisogno di giustificarsi il re se la sua posizione è dubbia, l’ha conseguita in circostanze o procedure in qualche modo irregolari. Che senso ha farsi maledire da mezzo mondo, mettere a rischio la sopravvivenza stessa della sua nazione?

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