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La recensione

Nei “Destini” di Stajano c'è uno specchio del reale da cui non si può fuggire

Giacomo Giossi

Volti di un mondo perduto, quello degli amici che non ci sono più e di una Milano remota, racchiusi nell'ultimo libro del celebre giornalista

Il destino è una domanda in forma di gioco, uno sguardo gettato oltre l’apparenza del prossimo. Una forma d’incontro sottile e gentile a cui Corrado Stajano si dedica fin dall’infanzia. Una forma di curiosità che ricorda, come accenna lo stesso Stajano nella prefazione al suo Destini. Vite di un mondo perduto (Il Saggiatore), il senso delle indagini e il fiuto di un amichevole ispettore Maigret. La sua posa analitica, ma anche ironica perché l’impegno e la cura, la precisione e la memoria non vivono dalle parti di uno sterile professionismo, ma stanno a loro agio nella leggerezza, da sempre elemento fondamentale per lo sguardo di un curioso. Poi certamente il tempo porta con sé il suo conto che non è sempre facile da comprendere, un prezzo fatto di drammi insensati e di dolori che restano anche negli anni sempre acuti. E la qualità di Destini è quella di saper vivere all’interno di un equilibrio magico che non trasforma la memoria semplicemente in una forma di nostalgia liberata, ma la contiene dosandola con cura, piano piano.

Corrado Stajano non usa banalmente i propri ricordi per raccontare, ma per disegnare un tempo come fosse una mappa. Una traccia preziosa fatta di incontri, relazioni e viaggi che diviene una delle forme possibili del Novecento. Presenza purtroppo costante è quella della guerra, un dolore e un limite dell’umano dal quale non sembriamo ancora in grado di sfuggire. La malinconia così prevale nei destini compiuti: quelli che avrebbero potuto, ma non sono stati e poi quelli invece che sono stati – e lo sono stati fortemente –, senza però arginare realmente con la loro straordinarietà un peggio al quale oggi assistiamo anche con una forma di pericoloso disincanto.

Un filo potente tiene legate le storie di Destini che prende avvio da Vado di Camaiore nella casa di famiglia che fu l’ultimo rifugio di Cesare Garboli, quasi un Virgilio sardonico per un viaggio che Stajano compie attraversando – soprattutto per l’Italia – un tempo che pare a noi oggi lontanissimo. Un bianco e nero vivido, a tratti tragico, in quell’accezione però che Susan Sontag definiva di super partecipazione. Una forma di presenza ostinata che rappresenta appieno la figura di Corrado Stajano.

Il mondo perduto è invece quello degli amici che non ci sono più, ma anche di una dolcezza data da quello spazio che sta sempre nel mezzo in una relazione. Una giusta distanza che serve per unire e non per separare. Una misura fondamentale utile a vedere con precisione e a non sfuocare  ingenuamente le cose. Scorrono tra le pagine di Destini i visi di Giulio Einaudi e di Paolo Volponi, di Raffaele Mattioli e di Alberto Cavallari, e ovviamente quello di una Milano oggi remota, ma che ancora si palesa tra le sue strade più vecchie. Uno spirito cittadino che fu anche nazionale, un bisogno di verità che fa di Destini non un semplice regesto di medaglioni del tempo che fu, ma una rete che si proietta verso il futuro. La ricerca del senso di un tempo che seppur perduto e in parte forse sconfitto dalla violenza della storia, resta fortemente fondante di un presidio di libertà e di dignità. Corrado Stajano si pone come un realista sincero, guidato da un ideale agostiniano che vive nella convinzione di essere ciò che si fa. Ma conscio anche che si è ciò che ci capita, Stajano offre uno specchio del reale da cui nessuno può sfuggire. Destini è un libro prezioso perché all’interno del destino di ognuna delle persone prese in considerazione spicca una possibilità irriducibile. Quello che è stato di formidabile potrà nuovamente esserlo in futuro, la possibilità è data e non più aggirabile. 
 

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