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Una biografia poetica

Van Gogh, il san Francesco protestante che non separava l'arte dalla fede

Giulio Silvano

Nel nuovo capitolo della sua opera illustrata che l’Orma ha portato in Italia, Frédéric Pajak supera l'immaginario comune e racconta la vita spirituale dell'artista olandese

Alla fine di una puntata diventata virale dell’eterna serie inglese “Dr. Who”, Vincent Van Gogh viene portato dal dottore nel futuro in modo che possa sentire le parole di un curatore dell’Orsay che dice: “Senza dubbio si tratta del più celebre grande pittore di tutti i tempi”. Il Van Gogh interpretato da Tony Curran si mette a piangere dalla gioia. È forse la condanna più grande per un uomo che dedica la sua vita alla pratica artistica quella di esser riconosciuto solamente dopo la morte, non poter vedere gli effetti sul mondo della propria opera. Questa è la narrazione che le prof. d’arte del liceo ci facevano sul pittore olandese, raccontandoci di come molti suoi quadri fossero poi stati ritrovati in delle stalle.

  

L’altra caratteristica attribuita a Van Gogh nell’immaginario comune, oltre alla sola celebrazione postuma, è quello della pazzia. Il cantautore Don McLean, famoso per la sua “American Pie”, scrisse nel 1970 la canzone “Vincent”. “Mentre leggevo una biografia di Van Gogh, di colpo ho capito che dovevo scrivere una canzone per sostenere che non fosse pazzo”, ha detto. Il colore giallo, di cui il pittore ha sempre fatto ampio uso, è stato per secoli considerato il colore dei matti. 

  
Questo è l’immaginario che circonda il pittore. Il nuovo capitolo dell’opera illustrata di Frédéric Pajak che l’Orma ha portato in Italia nella traduzione di Petruzzella (Van Gogh, una biografia, 256 pp., 30 euro) dopo Benjamin, Breton e Pound, ci permette di vedere da vicino le tribolazioni dell’anima di Van Gogh. È una biografia poetica, ma precisa e condensata, che usa come referenze diverse bio di accademici, nonché la corrispondenza completa del pittore. Il lato forse meno mainstream dell’artista che viene fuori dal libro di Pajak è quello di una forte e attiva vita spirituale. Van Gogh inizia a dipingere solamente a trent’anni, e morirà a trentasette.

 

Prima del pennello l’ossessione è quella per gli ultimi, per i lavoratori schiacciati dalla prima società industriale della metà dell’Ottocento, e l’obiettivo è di star loro vicino, aiutarli, anche rappresentandoli sulla tela o sulla carta. Van Gogh si priva di ogni cosa, coperto di stracci dorme nei pagliericci e, come un ascetico, mangia giusto qualche tozzo di pane raffermo. Per qualche anno gira per il Belgio e per l’Olanda vivendo come un san Francesco protestante, estremo nella sua ricerca di una miseria di cui porterà per il resto della breve vita i segni addosso.

 

Vuole dedicarsi, anima e corpo, al servizio degli altri, lui, proveniente comunque da una famiglia non proletaria, vuole arrivare ad assomigliare ai minatori, ai marinai, ai contadini sfruttati. La relazione più lunga che ha è con una prostituta alcolizzata. Prova a fare il predicatore, ma è troppo estremo nella sua elevazione della miseria, della martirizzazione, da esser cacciato dalle comunità che cerca di aiutare.

 

Si dedicherà alla pratica artistica con la stessa dedizione con sui si era occupato della predicazione cristiana, per lui strettamente legata alla condizione del lavoratore. Come scrive Pajak: l’olandese “percepisce la religione e l’arte come due discipline intimamente legate, che possono ricongiungersi l’una all’altra in una perfetta unità”. Poi arriverà la vita parigina, gli incontri con gli impressionisti – non è un caso che sia Pissarro il primo a riconoscerne la bravura – l’attrazione per le stampe giapponesi e il cavalletto da portarsi tra i campi di girasoli, ma tutto sarà sempre animato da questa profonda influenza del senso di carità cristiana, dell’esempio del Cristo compassionevole che sta accanto ai lebbrosi. Convinto, come scrive in una sua lettera, che “solo chi ha una religione, un senso inedito dell’infinito, può essere un’artista”. 

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