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La storia culturale americana nella vita di Jim Thorpe, il più grande atleta del mondo

Giulio Silvano

Lo sportivo è stato il primo nativo americano a pubblicare un’autobiografia e per la sua fama una cittadina in Pennsylvania decise di prendere il suo nome. Un libro

In Pennsylvania, tra Philadelphia e Scranton, c’è un comune di poco più di cinquemila abitanti noto come “La Svizzera d’America”, per via dei suoi paesaggi quasi alpini. Si chiamava Mauch Chunk, ma la cittadina nel 1954 cambiò nome in Jim Thorpe. Il nome è quello di un celebre sportivo che nello stato aveva passato alcuni anni da studente, nella Indian Industrial School di Carlisle, e che l’ultima moglie aveva scelto come luogo per costruirci il suo mausoleo. Il comune di Mauch Chunk sperava che questo portasse dei turisti attratti dalla fama di uno sportivo che alle Olimpiadi del 1912 il re di Svezia, consegnandogli due ori, chiamò “Il più grande atleta del mondo”. Anche chi non è attratto dall’epica sportiva, dai libri sui grandi calciatori o allenatori, dai biopic su pattinatrici e corridori, dai memoir di tuffatrici e pugili, dalle biografie di LeBron James e Michael Jordan (o quelle di Zidane con prefazione di Walter Veltroni), pensando che in fondo gli sportivi non sono così interessanti, potrà invece stupirsi leggendo della storia di Jim Thorpe. Di un nativo americano in cui scorre il sangue dei puritani inglesi, ma anche quello di Falco Nero, che combatté con gli inglesi e fu il primo nativo a pubblicare un’autobiografia.

Forse è perché il romanziere Tommaso Giagni, di cui è uscito per minimum max Afferrare un’ombra. Vita di Jim Thorpe, sa raccontare questa storia, o forse è perché, come scrive nel libro, “lo sport non è mai solo un gioco, ha per natura una componente di sacro, ma qui c’è anche una dimensione politica”, ma le parabole, i viaggi, le tragedie e gli incontri di Jim Thorpe superano in ogni modo la classica narrativizzazione della straordinarietà atletica dei “grandi sportivi”, la stantia mitizzata unicità dell’agonismo dei ginnasti glorificati. C’è molto di più, e Giagni qui ce lo fa vedere. C’è la storia culturale degli Stati Uniti della prima metà del Novecento, con tutte le sedimentazioni precedenti. C’è la questione razziale, e quella dei nativi, ma anche una disanima di come lo sport nei decenni sia diventato qualcosa di diverso. E tutto, come in un film di Herzog, è raccontato come se il focus fosse sempre su qualcosa di più grande.

Thorpe nasce il 22 maggio 1887, tre anni e mezzo dopo ci sarà il grande massacro dove i Lakota moriranno sotto il fuoco del settimo reggimento cavalleria, nella battaglia simbolo “dell’espansionismo bianco”. Nella sua esistenza Thorpe sarà molte cose: contemporaneamente un giocatore professionista sia di football che di baseball, vincerà medaglie d’oro alle Olimpiadi (che poi gli verranno tolte), sarà verniciatore a Santa Monica, farà l’attore in oltre settanta film a Hollywood, ma diventerà anche, mentre è in vita, soggetto di una pellicola, “Jim Thorpe. All-American” dove a interpretarlo è Burt Lancaster. “Nel suo abbraccio allo sport, Thorpe corrisponde all’ideale omerico del successo in ogni cimento. Curioso, appassionato, combattivo”, scrive l’autore. Come diceva Thorpe: “Non mi sono mai specializzato, ho provato tutto”. I giornali parlano della sua “rapidità sovrumana”, un avversario dice che sgusciava “in campo come un incrocio tra un levriero, una lepre e un’anguilla”. Ma lo sport non è tutto, e se c’è qualcosa di sacro nello sport, Thorpe è sia capro espiatorio, animale mitologico sacrificale, che sacerdote. E poi incontri e incroci con alcune figure, Marianne Moore, Ben Gurion, Ezra Pound, Teddy Roosevelt, Walter Benjamin, Pio X, John Wayne, Eisenhower… E c’è anche la vita fuori dal campo, mogli e figli e soldi che se ne vanno. E gemelli che muoiono mentre si va a caccia la prima volta col proprio padre.

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