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Il libro maschio

Ora tocca alle scrittrici confrontarsi con la figura paterna in crisi

Donatella Borghesi

Il nuovo romanzo di Jan Carson e i semi di Jane Austen, ambientato in una Belfast dei nostri giorni, si fa interprete dei sentimenti maschili superando gli impicci del genere

Le tue orecchie sono diverse dalle mie. Ci ho messo tre mesi ad accorgermene. Ero preoccupato, però ora che siamo in due ci sono troppe cose di cui preoccuparsi. Prima non c’eri, poi sì. Sta di fatto che è stato un trauma. Una mattina ero io, quella dopo era noi. Già prima di te ero spaventato. Dopo il tuo arrivo non c’è stato più niente a separare una paura dall’altra. Non ho avuto abbastanza tempo per prepararmi, per scappare”. E’ l’incipit del romanzo L’incendiario (Perrone editore), della scrittrice nordirlandese Jan Carson che ha per protagonisti assoluti due uomini, anzi, due padri. Un romanzo che si fa interprete dei sentimenti maschili, quasi un romanzo queer, se con questo termine possiamo allargarci al concetto di persona, superando gli impicci del genere. Con una scrittura “sporca” – tesa e ruvida, ironica, sentimentale e anche un po’ noir – Jan Carson si sottrae alla tendenza prevalente nella letteratura delle donne a parlare di sé, in un cerchio di madri, figlie, amiche, sorelle, e si avventura a calarsi tra gli uomini, raccontati non solo come incerti interlocutori o problematici figli mariti amanti. Entra, da donna, nel mondo maschile, per restituircelo. Jan Carson, paragonata ad Angela Carter, appartiene al filone letterario del realismo magico, e il suo romanzo è costellato di bambini da strani poteri, c’è chi vola, chi vede il futuro. In esergo, un riferimento filologico ci rimanda al doppio significato di sirena: allarme sonoro per segnalare il pericolo e donna acquatica dal canto incantatore. Giusto per dirci a cosa andiamo incontro. 

Ambientato in una Belfast dei nostri giorni alla vigilia dell’11 luglio, l’anniversario dei Troubles – il rito dei fuochi che ha ripreso vigore dopo la Brexit e che ricorda la lontana battaglia del 1690 vinta dai protestanti – il romanzo trasmette un clima elettrico, di attesa dell’esplosione della violenza che in Irlanda è sempre sottotraccia. Per tradizione, sono i ragazzini ad appiccare i fuochi, e scatta la gara a chi farà il falò più alto. Mentre la città brucia, si cerca il colpevole, anche se è un colpevole collettivo. Jonathan Murray, il primo protagonista, è un medico, abitudinario, preciso, perfino ossessivo, cresciuto in una famiglia anaffettiva. Vive da solo, finché un giorno riceve una chiamata da una donna che dice di stare morendo. E’ una strana creatura, gli chiede se a casa ha una vasca da bagno, lì starà meglio, “è da troppo che non vedo l’oceano”, portami con te. Con lei vive tre giorni di amore, scanditi dal suo canto orgasmico, quello che avvince e terrorizza i marinai. Non lo sa come sia successo. Nove mesi dopo ha tra le braccia la piccola Sophie. “Ho trovato la bambina in cucina, nell’acquaio mezzo pieno”. Jonathan pensa che la diversità di sua figlia possa solo farle del male e farlo anche agli altri. Guarda la sua bocca rosea, teme la voce che un giorno o l’altro ne uscirà. Potente, bestiale, indimenticabile. “La tua bocca è dove il mondo avrà inizio oppure fine”. 

Il secondo protagonista, Sammy Agnew, è stato un paramilitare, con tatuaggio identitario annesso, e andava in giro a dare la caccia ai cattolici. Ma non vuole più pensare al passato, adesso ha una moglie e un figlio, Mark. Però lo sente che suo figlio è come lui, la violenza gliel’ha passata in eredità. Ripensa alla sua, di rabbia: “è sempre lì, non è sparita, si nasconde dentro di lui come ghiaccio sul punto di sciogliersi e ribollire una volta liquido”. Sospetta che suo figlio sia l’incendiario, ci sono troppi indizi, non lo vedono mai, lo sentono solo quando sale le scale al rientro a casa, chi sa che cosa sta tramando, ma non riesce a parlargli, pensa addirittura a costituirsi al posto suo, per salvarlo… “Vorrebbe ergersi a barriera tra quella gente e quello che potrebbe fare suo figlio. E sarebbe facile, gli basterebbe alzare il telefono, chiamare la polizia. Si tratta di mio figlio. Vuole rovinare tutto. Ciò farebbe di lui Abramo, o forse Dio in persona – offrire in sacrificio il sangue del proprio sangue. No, la verità è un’altra. Il sacrificio funziona solo quando i figli sono buoni. Di quelli cattivi ci si può sbarazzare”. 

Si sa, la figura del padre, almeno in Occidente, è da tempo ufficialmente decaduta, come una dinastia regale. Anzi, è evaporata, per usare la perfetta sintesi – un puff, e una nuvola – del mago delle parole e dell’affabulazione Massimo Recalcati, lo psicoanalista che al tema ha dedicato diversi libri. Lasciando all’ultimo il compito di far recuperare il padre al figlio: “E’ indubbio che le giovani generazioni di oggi assomiglino più a Telemaco che a Edipo. Esse domandano che qualcosa faccia da padre, che qualcosa torni dal mare, domandano una legge che possa riportare un nuovo ordine e un nuovo orizzonte nel mondo”, scrive Recalcati. E ora che la burocrazia anagrafica può assegnargli il titolo di genitore 1 o genitore 2, l’immagine dell’eroe troiano che dopo essersi tolto l’elmo leva al cielo il figlioletto prima della battaglia, scelta da Luigi Zoja per il suo Il gesto di Ettore, sembra appartenere a un passato molto remoto. Eppure lo psicoanalista ci vuol dire che con la scomparsa del gesto dell’Ettore omerico, che in quell’elevazione dà identità al figlio e a sé stesso, un’intera civiltà stenta a ritrovare i propri passi in un paesaggio cosparso di troppe assenze. 

Con gli avvenimenti nefasti di stupri di gruppo fatti da ragazzini, i genitori – paritari naturalmente, nella loro fallosa empatia costruita con i figli – sono ancora più smarriti. In più, la figura del giovane padre in divisa ci è ritornata drammaticamente davanti agli occhi e nella coscienza con la guerra in Ucraina: è lui ad andare a morire, dopo aver messo in salvo moglie e figli. Ettore che si rimette l’elmo e si sacrifica per la patria, anche questo un flash inatteso, ci avevano detto che la Storia era finita… Scriveva Luigi Zoja in Centauri. Mito e violenza maschile già anni fa: “Il disarmo paterno non porta a valori più femminili ma al loro contrario, riarma l’orda dei fratelli verso una mascolinità selvaggia e competitiva”. La confusione è massima, il patriarcato è sempre più debole ma al bar e nelle classifiche dei libri più letti il generale Vannacci vince. 

Senza scomodare il conflitto generazionale del Padri e figli di Turgenev, guardiamo cosa ci racconta la grande letteratura novecentesca: ci vengono in mente solo autori maschi. A cominciare da Philip Roth, nel suo capolavoro Pastorale americana, il dolore struggente e la sconfitta per non essere riuscito a salvare la figlia dalla scelta terrorista: “Ma poteva scappare da sua figlia? Per paura? Attraversò la strada di corsa, questa terribile creatura (…) gli si gettò sul petto, cingendogli il collo con le braccia (…) chiamando l’uomo che era arrivata a detestare ‘papà, papà’, innocentemente, come qualsiasi bimba, e con l’aspetto di chi ha vissuto la tragedia di non essere mai stata figlia. Sono lì, che singhiozzano intensamente, il padre affidabile, centro e fonte di ogni ordine, che non poteva trascurare il più piccolo sintomo del caos – colui per cui tenere il caos a distanza di sicurezza era stata la via scelta d’istinto, il compito quotidiano di una vita rigorosa – e la figlia che è il caos stesso”. E poi, il padre di La strada di Cormac McCarthy, che protegge disperatamente il figlio durante la loro fuga in un mondo distopico, dove ad essere sacrificati da uomini diventati belve sono proprio i più piccoli; il vecchio padre in La sposa liberata di Abraham Yehoshua, che davanti all’infelicità del figlio ripudiato dalla moglie cerca di scoprirne il segreto. E perché no, anche il Clint Eastwood del film Gran Torino, felice metafora del padre simbolico. Perché, scrive ancora Recalcati, “il padre non coincide con lo spermatozoo: c’è padre solo dove c’è la trasmissione di una eredità capace di umanizzare la Legge, c’è padre solo se c’è testimonianza che la vita può essere desiderata sino alla sua fine, c’è padre solo quando si offre al figlio una versione singolare della forza del desiderio”. E adesso che la forza del desiderio si sta spegnendo – lo vediamo nei nostri adolescenti stretti in un angolo tra la depressione e il reato – come si ricostruisce la figura del padre? 

E nella letteratura delle donne, così ricca, vivace, multiforme, così avanti che sembra surclassare quella dei tanti maschi in crisi di oggi, dove sono i padri? Da quando le donne hanno cominciato a scrivere, un lavorio incessante per raccontare sé stesse e decostruire il mondo di cui erano prigioniere, hanno tracciato un percorso obbligato di liberazione, in cui il conflitto è stato ormai consumato, aggirando il tabù dell’incesto, mediando, rompendo, odiando. Per sopravvivere, quando erano escluse dalla legge del Padre, poi per conquistare indipendenza, libertà, diritti. Per avere anche loro una choise. Anche se sempre cercando nel profondo l’amore originario e l’autorizzazione paterna. Al rapporto tra padre e figlia ha dedicato un saggio decisivo Maria Serena Sapegno, Figlie del padre, edito da Feltrinelli. Il rapporto della figlia con il padre, dice Sapegno, è sempre ambivalente, obliquo: “Nella relazione con il padre si gioca il rapporto con l’altro sesso, e quindi la propria definizione sessuale, ma anche il rapporto con il Potere, col fuori, col mondo”. L’approvazione del padre è fondamentale, come rovinoso può essere il suo rifiuto. Subalterno o liberatorio, arriva comunque a una definizione. La letteratura è piena di padri crudeli, violenti, incestuosi, di padri che non sanno separarsi, farsi da parte: dal racconto di Boccaccio dove il padre di Ghismunda uccide il povero Guiscardo, e ne manda il cuore in una coppa alla figlia. Come il Re Lear di Shakespeare, che ripudia la figlia minore Cornelia, perché non accetta la pretesa di una dedizione senza limiti. Il Prospero di La Tempesta, invece, che ha cresciuto da solo la figlia Miranda, davanti all’amore di lei per il figlio del re di Napoli, gliela “cede” come un dono. Shakespeare segna un cambio d’epoca, scrive Maria Serena Sapegno: “E’ iniziata la modernità, la denuncia degli eccessi del potere paterno, la debolezza dell’autorità, l’insufficienza degli stereotipi della figlia oblativa”.  

Arrivano finalmente i padri benevoli, come quello della prudente ma preveggente Lizzy di Orgoglio e pregiudizio: accettato il confine ancora invalicabile dei ruoli e dei diritti ineguali, lei, la prediletta da Mister Bennet, è in grado di giocare di fioretto con i sentimenti (e i pregiudizi) nella danza dei sessi. Non a caso la grande Jane Austen è stata la prima a descrivere e vivisezionare con tutta l’eleganza della sua epoca il rapporto di forza tra uomini e donne, tanto da essere ancora letta con passione dalle ragazze di oggi. (Anche perché regala sempre un lieto fine, è la forza della vita, non c’è scampo). Ma c’è un “ma” anche nel padre apparentemente liberale. Lo dice la super emancipata Simone de Beauvoir in Memorie di una ragazza perbene: “Con lui non ero né corpo né anima, ero una mente. Di fronte a mio padre mi credevo un puro spirito, ed ebbi l’orrore ch’egli mi considerasse d’un tratto come un organismo. Mi sentii decaduta per sempre”. Non è facile essere figlie predilette. E quanto può durare il padre benevolo? Scrive Adrienne Rich, femminista degli anni Settanta: “Per anni ho lottato contro di te: le tue categorie, le tue teorie, la tua volontà, la tua crudeltà che arrivava indistinguibile dal tuo amore. Mi vedevo, la figlia primogenita cresciuta come un figlio, quella che deve rovesciare il padre, prendere ciò che lui le ha insegnato e usarlo contro di lui”.  

Il libro di Jan Carson arriva alla fine. Sammy è tormentato, non riesce più a dormire, ha mal di testa e petto pesante, cerca un medico per farsi dare qualcosa, nell’ambulatorio trova di turno Jonathan, è confuso, ha bisogno solo di parlare. Jonathan lo asseconda, disdice tutti gli altri appuntamenti, ascolta la sua confessione. In altri tempi uno così l’avrebbe mandato al servizio disturbati mentali. Invece capisce che entrambi sono davanti allo stesso dilemma, proteggere i propri figli o far prevalere il senso di appartenenza a una comunità. E’ il loro incontro la chiave risolutiva del romanzo, una sorta di autocoscienza maschile, a piccoli passi, malintesi e disvelamenti. Di rinuncia a progetti estremi o a sacrifici inutili. Perché la salvezza viene dalla parola. “Quando la polizia fa irruzione in casa per portarlo via, Mark è ancora stretto tra le braccia del padre. Lo trascinano sul prato e perde le scarpe. I suoi talloni scalzi lasciano due scie nelle aiuole. Sammy, sconvolto, resta sulla soglia a guardare. Non riesce a girarsi. Non sopporta la vista di sconosciuti che strattonano il suo ragazzo, che se ne fregano se la faccia gli struscia sulla ghiaia. Senza motivo e senza rimpianti capisce che anche dopo anni e anni proverà ancora la sensazione del corpo di Mark tra le braccia, che ne porterà il peso morto nel sangue e nelle ossa. Perché è questo che significa essere padre, ed è un privilegio che non si può restituire”. Ecco, forse Jane Austen, alla lunga, ha lasciato semi che sono germogliati.

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