10 dicembre 1960: una replica del primo treno tedesco per celebrare l'apertura della prima ferrovia tra Norimberga a Furth 125 anni prima (Foto di Keystone/Getty Images) 

La riflessione

La storia è imprevedibile, la necessità del suo sviluppo solo un'illusione

Sergio Belardinelli

Non tutto è per forza progresso o decadenza. È difficile determinare la direzione di un popolo o di un’epoca come se si trattasse di un tutto. Occorre fare i conti con le inevitabile ambivalenze e imponderabilità che contraddistinguono ogni momento storico

Il più delle volte che guardiamo la storia i nostri occhi sono offuscati da un pregiudizio: che essa abbia una linea di sviluppo verso un fine, sia esso il progresso o la decadenza. Tale linea può rimanere nascosta, magari lastricata di inciampi, ma viene ritenuta ineluttabile. Finché gli uomini hanno creduto in Dio, hanno attribuito a lui, e a lui soltanto, il potere di conoscere l’imperscrutabile corso delle cose. Nessuno avrebbe osato mettersi al suo posto; le vie della Provvidenza erano chiare soltanto a lui. Gli uomini potevano al massimo confidare nel fatto che, nonostante le innumerevoli croci disseminate nel corso delle loro povere vite, tutto si sarebbe comunque messo per il meglio. In epoca moderna il discorso cambia radicalmente. La scienza, la tecnica e la politica ci illudono di poter diventare finalmente padroni della storia e del nostro destino. E’ il trionfo dell’idea di progresso, strettamente connessa all’idea che la storia dell’umanità abbia nell’Occidente moderno il suo stadio evolutivo più avanzato. Hegel, Marx, Spencer o Comte, solo per fare qualche nome, sono accomunati da questa stessa convinzione. Di qui anche una certa tendenza a fare dell’Occidente moderno e secolarizzato il criterio in base al quale misurare il grado di sviluppo delle diverse civiltà, nonché la modernità o meno di certe forme culturali interne alla cultura occidentale. Ancora oggi, quando ad esempio qualcuno difende la famiglia tradizionale, lo si accusa non a caso di essere “fuori della storia”.

A partire dalla fine del XIX secolo, l’euforia che scaturiva dalla convinzione di rappresentare il punto più avanzato della storia e della civiltà umana lascerà il posto alla nausea, alle apologie del nichilismo e della decadenza. Seppure con diversi toni, dentro questa svolta troviamo Nietzsche e il nietzscheanesimo (è il titolo della celebre opera di Ernst Nolte), troviamo i critici dello storicismo di Dilthey, si pensi a Troeltsch e Meinecke, ma soprattutto troviamo Oswald Spengler, Max Scheler e Martin Heidegger, sempre per fare qualche nome. Se per gli apologeti del progresso la storia cammina verso il “bene”, le famose “magnifiche sorti e progressive”, per i nuovi apologeti della decadenza la storia dell’Occidente è entrata inesorabilmente nella sua fase di declino. Per dirla con Spengler, del “corpo vivo” dell’anima occidentale, la cosiddetta cultura, non resta che la sua “mummia”, la civilizzazione. Democrazia di massa, partiti, Prima guerra mondiale, rivoluzione proletaria, pensiero tecnico sono semplicemente il frutto “inevitabile” del disfacimento della cultura occidentale. 

 

Henry Hudson, esploratore e navigatore inglese, riceve l'incarico dalla Compagnia olandese delle Indie Orientali, intorno al 1609 (Collezione Kean/Getty Images) 
 

Mentre infuriava il dibattito su questi temi, uno studioso italiano che certamente avrebbe meritato maggiore fortuna, Guglielmo Ferrero, dubitava invero che potessero esserci segni in base ai quali “riconoscere se un popolo ascende o decade”. Né apologia del progresso, né della decadenza dunque. Ma non si può certo dire che i suoi dubbi siano stati presi molto sul serio dai suoi contemporanei, per lo più ammaliati dal tepore della crisi e in attesa spasmodica di quella che Heidegger additava come la “grande guida”. Resta il fatto che è difficile determinare la direzione di un popolo o di un’epoca come se si trattasse di un tutto. Al massimo si possono individuare “ascese” e “decadenze” settoriali; l’ascesa di qualcosa coincide spesso con la decadenza di qualcos’altro e viceversa; sempre occorre inoltre fare i conti con le inevitabile ambivalenze e imponderabilità che contraddistinguono ogni momento storico. Per fare qualche esempio, la conquista della libertà porta con sé anche l’egoismo che affievolisce il desiderio d’agire; l’opinione pubblica è un argine al potere politico, ma può anche diventare una forma di repressione della libertà individuale; lo sviluppo tecnologico libera da tante antiche schiavitù, ma ne crea di nuove; il potere democratico può diventare più forte e pervasivo di quello dei monarchi per diritto divino, e si potrebbe continuare.

 

Ciò che voglio dire è che la storia e i cambiamenti che essa porta con sé hanno sempre lo stigma dell’ambivalenza e della contingenza; scaturiscono dalla reazione degli individui e delle comunità rispetto a circostanze nuove e il più delle volte imprevedibili che in vario modo hanno fatto irruzione nella loro vita; non sono l’effetto di un principio che opera inesorabilmente dall’“interno” della storia stessa. Sulla scorta di grandi autori come Tucidide, Burke o Ranke, credo sia meglio cercare di comprendere la storia nell’ottica della rappresentazione drammatica di personaggi ed eventi come si sono realmente svolti in un determinato tempo, che nell’ottica di uno sviluppo che espliciterebbe semplicemente ciò che era già presente in potenza fin dall’inizio. Meglio l’imprevedibilità, la contingenza, l’unicità, l’indeterminabilità dei fenomeni storici e sociali che la loro presunta necessità. Specialmente se consideriamo che chi pretende di conoscere questa presunta necessità in genere non se ne sta tranquillo ad aspettare che si compia, come coerentemente ci si potrebbe attendere, ma fa di tutto per imporla con la forza.

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