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Il racconto

Nell'epilogo di McCarthy nessuna fiducia razionale basta al nostro abisso

Edoardo Rialti

L'ultimo libro dello scrittore statunitense "Stella Maris", uscito in Italia a poco più di tre mesi dalla sua morte. Racconta la vicenda di un dottore che dialoga con una fanciulla schizofrenica “dal corpo di cigno”, e innamorata del fratello protagonista del precedente libro "Il Passeggero"

Non sarebbe preferibile restituire alla morte, nella realtà e nel nostro pensiero, il posto che le compete, dando un rilievo un po’ maggiore a quel nostro atteggiamento inconscio di fronte alla morte che ci siamo fino ad ora sforzati di reprimere con cura?”. Il Novecento si era aperto con la domanda di Freud, la scia era quella della Prima guerra mondiale. Thomas Mann, nella lunga sosta di un’intera cultura nella clinica dell’anima de La Montagna Magica, nella fiducia già incerta che le parole siano ancora “l’onore dell’uomo”, fa sognare al protagonista un’esplicita risposta al quesito: “Per rispetto alla bontà e all’amore l’uomo ha l’obbligo di non concedere alla morte il dominio sui propri pensieri”. Si può allora tornare giù a valle. Stella Maris di Cormac McCarthy, che in Italia esce a qualche mese dalla morte dello scrittore (Einaudi, traduzione di Maurizia Balmelli) a completamento del dittico con Il Passeggero, fin dal titolo si richiama a Mann e, come questi, a Dante.

Il nome della clinica psichiatrica è tanto la stella polare che la vergine Maria delle litanie crepuscolari del Purgatorio o degli inni del Paradiso, “termine fisso d’etterno consiglio”, punto di stabilità nel vortice della notte esterna e interiore. Un dottore dialoga con una fanciulla schizofrenica “dal corpo di cigno”, prodigio della matematica e innamorata del fratello protagonista dell’altro libro. I due sono cresciuti all’ombra dell’altro grande trauma novecentesco, l’atomica concepita anche dagli studi del padre, in significativa convergenza con l’Oppenheimer di Nolan, basato sullo scarto tra immagine e suono, azione, visione e conseguenze, tema esplicito anche del romanzo: “Del suo sonno non so cosa dirle. Anche io non ho mai dormito. E non ho mai bombardato nessuno”. Le certezze e i linguaggi per esprimerle sono in frantumi: matematica, fisica, filosofia, la stessa psicanalisi. “Parlare è solo il verbale di ciò che si pensa” e chi sta davvero pensando ciò che poi cerchiamo di esprimere senza neanche accorgersene? “Se credete di usare il linguaggio per risolvere i problemi, vorrei che mi scriveste e mi raccontaste come lo fate”, dichiarò McCarthy in uno dei suoi rari saggi teorici, frutto dei dialoghi con gli scienziati di Santa Fe. Sul medesimo fallimento si arena la thule farmacologica della psichiatria: “Come se nome e cura fossero tutt’uno… Non avevo nessuna ragione di riporre più fiducia in uno stato mentale alterato dai farmaci che in uno stato mentale lucido.

Fatto sta che i danni che riuscite a combinare sono probabilmente minimi”. McCarthy non “supera” Mann, le opere riuscite, qualunque sia il loro grado di eccellenza, non superano quelle con cui dialogano, guardano nella stessa direzione, partecipano del medesimo agone. Se Il Passeggero si richiamava alla contrapposizione tra visione e immaginazione in Twain, così come a Faulkner, al nesso sacrilegio-conoscenza della tragedia greca e alla pazza saggezza degli “scemi” di Shakespeare, qui si citano Godel, Wittgenstein, Chesterton, Bach. Le allucinazioni, gli emissari dell’inconscio sono forse una barriera da qualcosa di più spaventoso ancora, una lezione ripetuta, gli incubi ci svegliano per essere ricordati. Perché, per metterci in guardia da qualcosa fuori di noi o che siamo noi stessi? “Se non si sa cos’è la vita – e non lo si sa – non so come si potrebbe individuarne l’assenza?”. Le strilla dei bambini documentano il nostro progressivo passaggio dalla rabbia per come l’universo dovrebbe essere al dolore per come esso è.

Difficile stabilire come leggere questa fila ininterrotta di botta e risposta, quanto tempo accordargli: di colpo, tutte assieme, oppure dedicando ogni sessione di lettura a una seduta, procedendo ancora più piano, scambio per scambio, battuta per battuta? C’è sempre tempo per razionalizzazioni e canoni e graduatorie. Già si attesta la forza di un ottantenne che prova ancora a spingersi ai confini estremi del suo e nostro mondo in un corpo e una psiche altra, così come nel tassello precedente aveva sorpreso tanto i cultori delle identità ghettizzanti in letteratura quanto i conservatori sempre in brodo di giuggiole per i suoi sceriffi del buon tempo antico, raccontando una trans che incontra la voce di Dio nelle fatiche della transizione. Nel Passeggero uno delle dichiarazioni di poetica più belle e discrete era l’elogio di un cheeseburger lurido. Qui è il “Non sono sicuro di seguirla” dello psichiatra, che è quanto forse il lettore stesso confessa all’autore. La paziente – e McCarthy con lei – risponde che non importa, basterebbe solo vedere a colori ciò di cui parla. “L’ipotesi è che non ci sia una realtà la cui percezione è solo un’ombra bensì che ci sia una realtà sufficientemente durevole per sostenere la sua stessa infinita sperimentazione”. Parliamo ancora un poco, esortava il Nero al professore Bianco e aspirante suicida di Sunset, la Bibbia in schermaglia con Camus. Qui – in una relazione che sulle parole si fonda – pure questo vien meno. Resta solo la richiesta “Tienimi le mani”.

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