(foto Ansa)

L'urlo perfetto

I versi di Patrizia Cavalli svelano la differenza tra cosa è poesia e cosa no

Cettina Caliò

“Le mie poesie non cambieranno il mondo” è il titolo della sua prima raccolta ma anche del documentario di Annalena Benini e Francesco Piccolo. Un corpo a corpo con la scrittura

"Qualcuno mi ha detto / che certo le mie poesie / non cambieranno il mondo / Io rispondo che certo sì / le mie poesie / non cambieranno il mondo”. Sono versi di Patrizia Cavalli, tratti della prima raccolta del ’74, dedicata a Elsa Morante che in lei aveva visto la poesia. “Bene, vediamo un po’ come fiorisci / come ti apri… / dove inclini / se nel morire infradici o insecchisci / avanti su, io guardo, tu fiorisci”.

“Le mie poesie non cambieranno il mondo” è anche il titolo del documentario, da metà settembre al cinema, su questa splendida autrice. Scritto e diretto da Annalena Benini e Francesco Piccolo, prodotto da Fandango in collaborazione con Rai Documentari. “Adesso che il mattino non ha mai principio / e silenzioso mi lascia ai miei progetti / a tutte le cadenze della voce, adesso”.
Quel verso-titolo della Cavalli può suonare provocatorio ma neppure tanto, poiché la poesia, come spesso ho avuto modo di dire, non serve a niente, ed è probabile che non possa cambiare il mondo. “Adesso che posso rimanere a guardare / come si scioglie una nuvola e come si scolora”. La poesia, tuttavia, offre la possibilità di raggiungere se stessi attraverso un comune sentire. “Adesso / che ogni giorno mi aspetta / la sconfinata lunghezza di una notte”. Offre uno strumento di comprensione di se stessi e del mondo, consente al pensiero, talora anchilosato, una distensione, un’apertura che può tornare utile a noi in quanto individui e a noi in quanto mondo. “Nel lusso immenso di una esplorazione”.
E’ una delle voci luminose della poesia contemporanea, Patrizia Cavalli. “Quest’anno avrei voluto un altro maggio”. Umbra, classe ’47. Morta lo scorso anno a 75 anni. “La morte vorrei affrontarla ad armi pari / anche se so che infine dovrò perdere / voglio uno scontro essendo tutta intera”. Negli anni Sessanta, a vent’anni, si trasferisce a Roma, studia filosofia, e incontra Elsa Morante. “Muoio / Lo fanno tutti… / Però intanto… / in questi istanti incerti / io sono certamente un’immortale”. La Cavalli nutre una profonda ammirazione per la scrittrice romana; diceva che avrebbe voluto essere guardata da lei come lei guardava i suoi personaggi. “Ciò che si vede alla fine del ricamo / quando si rompe con i denti il filo / dopo averlo su se stesso ricucito / perché non possa più sfilarsi se tirato”. Quest’incontro, che la Cavalli sente come salvifico, produce un cambiamento, sul piano umano e intellettuale, nella sua vita, “mi ha accolto…, non ero più sola…, il mondo è diventato sublime”. La Morante la battezza poeta, e le consente la frequentazione di molti intellettuali e artisti del tempo. “Ma per favore con leggerezza / raccontami ogni cosa / anche la tua tristezza”. 
Autori come la Cavalli insegnano l’attenzione per la parola poetica, la severità del giudizio su se stessi, e sul proprio lavoro, una lezione che non dovremmo mai smettere di imparare, e di mettere in pratica. “Quante tentazioni attraverso / nel percorso tra la camera / e la cucina, tra la cucina / e il cesso”. Nella poesia degna di questo nome la parola è sempre esatta, perché dietro c’è un costante e rigoroso esercizio sul suono e sul senso, affinché la parola sia l’urlo perfetto e la carezza perfetta. “La mia ambizione / è accogliere la lingua che mi è data / e, oltre il dolore muto, oltre il loquace / suo significato, giocare alle parole / immaginando, senza un’identità / una visione”. La poesia – e lo dico ogni volta che posso, un po’ come certi nonni che a un certo punto della loro memoria, raccontano sempre la stessa cosa – è visione di cose, luoghi, persone. “Ecco, l’amore è / un po’ come questa casa / scomoda, difficile, per niente / funzionale / Stanze quasi tutte uguali… l’inerzia padronale degli oggetti / Ma certe sere, un po’ ebbra / con tutte le mie belle luci accese / guardo questa casa, la guardo / e mi commuove”. E’ sempre poesia d’amore essendo d’amore il rapporto che abbiamo con la vita, in ogni cosa terribile e bella che la vita è. “Mi perdo / per strada, mi scompongo / giorno per giorno ed è vano / tentare qualsiasi ritorno”. La Cavalli fa metafora della sua visione del mondo, ne fa un’istanza collettiva, perché è così che funziona la poesia, è questo quello che fa la poesia. “Non sarò mai castrata e parallela. Magari me ne vado, ma tutta di traverso e tutta intera”. La poesia tenta l’indicibile, e grida, domanda, dispera e spera. “Quando nel male discosti da se stessi / si assiste a quel noioso funerale / dell’ora meridiana che s’impenna / e morta cade”. Ci tiene lontani dalla dimenticanza perché dilata e nutre la nostra memoria; e pertanto è cosa buona giusta, soprattutto oggi, in questo nostro angusto tempo di cancellazione. “Mi ero incagliata dentro un cupo errore… / dentro il silenzio del tuo cuore accorto”.
“Era tutti e non era nessuno / Un impasto densissimo amoroso / che riassorbiva il mondo nel riposo”. Era una persona singolare, Patrizia Cavalli. E’ suggestiva la parola singolare. Tante singolarità fanno una pluralità differente e migliore, proprio in virtù di quelle differenze che dovrebbero stimolare un confronto che ci fa umanamente più belli. “Mi recito nel primo dormiveglia le scadenze / la vita come un metro coi centimetri / vedo persino il suo colore giallo / la misuro in lunghezza, avanzo nello spazio… / vado di corsa verso il caffellatte”. Nell’apparente leggerezza delle sue trame c’è un ordito che pesa, e le consente di dire il cielo o un bicchiere d’acqua con la stessa intensa luce, e di rimanere come traccia nella memoria. “Esuberanza / di spirito che anela a straripare… / che si rovescia in varietà di forme”.
Classica nella misura metrica, il suo verso possiede musicalità, il registro è quotidiano, la sensibilità dello sguardo è acutissima. “A volte si vivono intere vite senza esserci”. Limpida, ironica e dissacrante. Il suo è un lirismo schietto, di quella semplicità che è appannaggio dei grandi. “Dolcissimo è rimanere / a guardare nella immobilità / sovrana la bellezza di una parete”. Riesce ad arrivare a tutti perché in tutti risuona con la sua intensa leggerezza, e in tal senso la si potrebbe definire pop. “Che tu ci sia o non ci sia, ormai è la stessa cosa, comunque sia io ho la nostalgia”.
Preferiva essere chiamata poeta, come la Achmatova e come qualche altra. E forse qualcuno avrebbe da ridire, oggi che ci districhiamo tra brutti suoni e vocali sostituite da asterischi, così versati nella forma e così dimentichi della sostanza. “Alla felice colpa di esser quel che sono / il mio felice niente”. 
Edita da Einaudi, la poesia della Cavalli scruta, con lucidità ironica e malinconica, in ogni anfratto dell’esistenza e lo illumina, dando ai noi lettori la possibilità di guardarci dentro e scorgere fra le ombre qualcosa che ci parli, qualcosa che ci somigli. “Come di fronte a un fiore / di datura, a quel suo giallo / non propriamente giallo, crema piuttosto / la stessa crema che ha la pesca bianca / con brividi di verde trasparente”. Patrizia Cavalli osserva questo teatro che è la vita, questa fulminea recita senza copione, e la racconta con un linguaggio piano, audace e candido, nel trascorrere di notti e di giorni che “mi cadono sul viso / Io li vedo come si accavallano / formando geografie disordinate: / il loro peso non è sempre uguale / a volte cadono dall’alto e fanno buche / altre volte si appoggiano soltanto / lasciando un ricordo un po’ in penombra”.
Poeti come la Cavalli (e per fortuna nostra è in buona compagnia di altri grandi come lei) fanno la differenza, e si prestano al tentativo di chiarire l’annosa questione del cosa è e cosa non è poesia. “Basta / scivolo nel sonno, qui comincia / il mio libero arbitrio, qui tocca a me / decidere che cosa mi accadrà / come sarò, quali parole dire / nel sogno che mi assegno”. Per capire cosa è poesia bisogna frequentare assiduamente le pagine della Cavalli e di chi come lei, per educare l’orecchio al significante e il pensiero al significato. Bisogna riconoscere “le scritture improprie”, per dirla con Elsa Morante. “Il bello era proprio quel punto / era rimanere / nel limbo delle cose sospese”. E allora diventerà più semplice capire cosa NON è poesia (alcuni di noi imparano per negazione). Di certo la poesia non è il pensierino ammiccante o con velleità di saggezza preconfezionata affidato alla carta. “E se mi guardi davvero e poi mi vedi? / Io voglio che stravedi non che vedi!”. Quel pensierino sarà di certo grazioso, perfino lodevole, ma di certo non è poesia. Il guaio, ed è un guaio perché va a detrimento della nostra bellezza interiore, è che quando passa tanta roba che poesia non è, si finisce per dimenticare cosa sia poesia, si finisce per non riconoscerla quando la si incontra. “Mi scompaio come l’oggetto / troppo a lungo guardato / ritornerò a dire / la mia luminosa scomparsa”. Per la poesia è come per la musica: c’è la musica – quella che ci porta via come fa il mare, per citare Baudelaire, e fa vibrare in noi tutte le passioni di un vascello che dolora sull’immenso abisso che ci culla – e c’è il frastuono. “Il peggio che ci possa capitare; guardare la bellezza e mai farla propria”. Basta prenderne atto e dare a ogni cosa il nome appropriato. “Non importa se non puoi, facciamo quando vuoi”. Per la poesia, come per la vita, si tratta sempre di abitudine alla bellezza, poiché la bellezza è un’abitudine, e purtroppo anche il suo contrario lo è. “Come faccio a non sentire quel rumore… / come posso, anche volendo, non vedere / quell’ingombro massivo e prepotente / che intralcia i passi e che la vista offende?”.
E’ molto fisica la poesia della Cavalli, è un sentire corpo a corpo, nei “giorni santi e stupefatti”, che si traduce in una successione vivida di immagini, come scatti fotografici, capaci di cogliere quell’espressione che sola rende unici. “Soltanto nostalgia che gira e si rigira / dentro il suo molto affaccendato / niente”. 
Oltre alla scrittura poetica, la Cavalli si è occupata di traduzioni per il teatro. “Fingo di aspettarti per ingrandire i minuti / E fai bene a non venire”. Undici delle sue poesie sono state musicate da Diana Tejera, il risultato è un libro e un CD dal titolo “Al cuore fa bene far le scale”, edito da Voland/Bideri. “E poi raccoglimi dentro i tuoi margini per riconoscerti”. Insieme alla cantautrice Chiara Civello, la Cavalli ha scritto il brano “E se” (per chi scrive, queste due parole sono l’augurio perfetto per ogni brindisi). Con il suo unico lavoro narrativo, “Con passi giapponesi”, una raccolta di prose, una sorta di diario visionario per dire “tutto quello che c’è da vedere”, la Cavalli è stata finalista al Premio Campiello nel 2020. “Non ho seme da spargere per il mondo / non posso inondare i pisciatoi né / i materassi”.
Il poeta è qualcuno che si prende sul serio solo fino a un certo punto, poiché, in fondo, ha intuito, per squarci, per lampi, come funziona questo gioco fugace e bislacco che tutti giochiamo. “Seguita la vita come prima / con gente in piedi, seduta / e che cammina”. E’ una persona come tante, fa le cose prosaiche che tutti facciamo: caricare la lavatrice, pagare le utenze, stare in fila alla cassa di un supermercato, però – posto che la poesia è un modo di stare al mondo – in tutto questo non può fare a meno di osservare dentro e intorno, e provare a fare metafora della sua visione. “Lievemente s’incanta sulle cose ferme / e sul fermento e le immagini sono risucchiate / e scivolano dentro / come nel gatto che socchiudendo gli occhi mi saluta”. L’amante della poesia ha la buona sorte di assistere a quella visione, di farne parte e di trovarci dentro il suo come se. In quella visione è possibile intravedere la nostra finitudine, e ogni contraddizione che ci muove. “Noi perduti / qui a fare le smorfie, le mossette”.
La Cavalli, che con la lettura dei suoi versi riempiva i teatri, diceva di non sapere se e quanto riuscisse a comunicare. “E’ questa / la fragile promessa / che vorrei farti / Di afferrarti / anche quando sarà impossibile”. E pare fosse più interessata alla scrittura che alla comunicazione; ma va da sé che la comunicazione passa, il sentire arriva se e quando la scrittura riesce a scardinare con la sua essenzialità le nostre porte. “Vita meravigliosa / sempre mi meravigli / che pure senza figli / mi resti ancora sposa”. 
“Dove si è slegato il filo, dove si è aperto / il crepaccio”. Sebbene si sentisse preda di una “eterna paura di esistere”, ha saputo vivere e morire, senza pietismi, “muoiono i vivi e pure i morti muoiono… / Ognuno ha la faccia / di chi deve morire”, con ironia. “Ti avrò sempre presente / avrò il pensiero pieno del tuo niente”. 
L’ho già detto, sì, che la poesia è un mondo che apre mondi; ci consente di tendere verso l’alto, e di vedere largo. “Ti riconosco dalla luce più lenta / dai pulviscoli sospesi e senza direzione”. Ci permette di sapere la nostalgia, di considerare il passato (anziché cancellarlo o epurarlo), e tutto questo è un bene, poiché se questo manca, la nostra adesione al presente è sterile, storpia, e incline alla rovina. “Riabito case sconosciute e ho nostalgia / di cose mai avvenute”. 
Nella “ragionevolezza che tende al possibile”, in questa “corsa povera e sghimbescia / finché il carretto o si ferma o si rovescia”, un poeta non ci lascia mai, e non ci lascia mai come ci trova. “Ma io non voglio andarmene così / lasciando tutto come ho trovato”.

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