I libri degli altri / 5
Montaigne in mezzo al mare. Intervista a Carlo Romeo
Una vita in compagnia dei “Saggi”. Perché la cultura umanistica è “non sentirsi mai soli”. Poi la passione per la vela, Hemingway, la Rai, la scoperta di Andrea Camilleri. Intervista d'acqua salata
Carlo Romeo è un nomade acquatico con tre ancore al comodino: Le lettere a Lucilio di Seneca, il Qohelet, i Saggi di Montaigne. Ma sono anche altri i libri che legge e rilegge, da Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome ai Diari di Vitaliano Brancati, da La storia di san Michele di Axel Munthe al De bello gallico di Cesare. Vive nel paese più piccolo di uno stato piccolissimo, in una casa stile residenza di campagna del signor Drummond. Del resto è andata proprio così: dopo che un americano l’ha fatta costruire e ci ha vissuto per anni, l’ha abbandonata. “Era diventata una grotta”, racconta, e solo dopo una lista infinita di lavori nel 2021 l’ha abitata con moglie e figlio. Ora è talmente finestrata che ci si potrebbe abbronzare anche al chiuso – molto spazio, i mobili di tre case, legni di una vita intera. Un interno bianco, abbacinante.
Per tutta l’estate, ogni settimana sul Foglio trovate l’appuntamento di Marco Archetti con un “bibliomane” diverso. Interviste a intellettuali, professori e scrittori per farci raccontare i libri che li hanno formati e appassionati. L’11 luglio abbiamo pubblicato “Libri che pensano”, intervista al filosofo Umberto Curi, il 18 “Alla ricerca di Proust”, alla francesista Mariolina Bertini, il 25 “Il romanzo della scienza”, al matematico Alfio Quarteroni, l’1 agosto “Leggere ad alta voce”, alla regista Andrée Ruth Shammah.
Ma lui è uomo d’aria salata e mare aperto, uno che si è appassionato alla navigazione da bambino ed è salito in barca a cinquant’anni. Una vita scolastica vagabonda e disastrata, otto scuole cambiate in sette anni e due bocciature alle superiori, poi una maturità trionfale da privatista, infine la fioritura e il riscatto con la Paleografia latina medievale. Collaboratore del professor Armando Petrucci, autore di contributi al Dizionario biografico di Treccani, a Radio radicale negli anni Settanta, Carlo Romeo è stato direttore delle news di Teleroma 56 negli Ottanta, dirigente Rai dal 1995 e poi a capo della Segreteria sociale dell’azienda. Quindi Direttore generale della San Marino Rtv fino alla pensione due anni fa. Oggi, per molti, è una delle voci di “Stampa e regime”, la leggendaria rassegna stampa di Radio radicale, che tiene in coinquilinaggio con Alessandro Barbano, a volte Roberta Jannuzzi e Flavia Fratello – gente da ringraziare, che prende pallottole al posto nostro e sbarba la fuffa per dare a noi la ciccia.
Oggi è una delle voci di “Stampa e regime” su Radio Radicale. Ha uno sguardo preciso e solo suo
“Qui è quando mi arrestarono a Praga”, dice mentre mostra una foto in cui è irriconoscibile, in bianco e nero, tutte figurine sbiadite e affusolate, a zampa d’elefante. “Mi presero alle spalle, non me l’aspettavo”. Ma è solo uno dei tanti arresti, il ruolino parla anche di Turchia e Polonia – il minimo, se te ne vai in giro per il mondo a zoppicare con i radicali. Il suo studio è in cima a due rampe di scale, la sommità della casa. Fa pensare al colombiere di Moby Dick: “Te ne stai lassù a cento piedi di altezza sopra il ponte silenzioso, a cavalcioni degli abissi come se gli alberi fossero giganteschi trampoli, mentre sotto di te e, per così dire, tra le tue gambe, nuotano i più colossali mostri marini”. Perché Carlo Romeo è proprio così. Lo è quando scrive nel suo blog Ferian o “dentro nei libri” (nel suo Boatpeople, influenze di Jerome più che evidenti). E lo è quando parla. Lo è quando racconta i giornali e anche di persona. Lo si potrebbe definire un portatore di sguardo: ne ha uno preciso e solo suo, uno sguincio refrattario alle diagonali repentine, sardonico q.b. e screziato di scetticismo – lo scetticismo di chi conosce la tempesta e non la confonde col bicchiere d’acqua. “Navigare è l’arte di aspettare”, scrive in Burrasche. Diario di bordo 2022.
Il suo studio ha finestre-oblò con vista balle di fieno e ondulate pettinature campestri, le pareti sono gremite di fotografie di navi e velieri, una foto con Marco Pannella su uno scaffale e un armadio ingozzato di libri, alcuni autografati. Si va da Eraldo Pecci a Le memorie di Adriano, dall’opera omnia di Romain Gary a un elenco telefonico di Roma del 1890 che sembra un volumino della E/O dei primi anni Novanta (centottanta pagine scarse), a pile di prime edizioni originali di Ken Parker. “Leggevamo Tex e Capitan Miki, poi arrivò la rivoluzione con questo personaggio dalla faccia alla Robert Redford: la letteratura applicata al fumetto. Negli anni ebbi anche la fortuna di diventare amico del disegnatore Ivo Milazzo”.
Tutta la casa è piastrellata di libri, ce ne sono ovunque, adeguatamente scarabocchiati e chiosati. Ogni parete è uno spunto. E si parte con gli aneddoti, i ricordi, la vita nei libri e la vita nella vita. “Era il 1986, dovevo andare a Todi per intervistare il pittore Piero Dorazio. Aveva adibito a studio una bellissima canonica sconsacrata. Quando entro con la troupe vedo un vecchietto. Camicia bianca, seduto su una sedia, una cartella sulle ginocchia. Mi avvicino, lo saluto. Lui mi risponde nella sua lingua, al che io comincio a ciabattare un po’ di francese per stargli dietro. Poi arriva Piero e mi fa: ‘Bene, vedo che hai già conosciuto Eugène’. Era lì con la moglie, dopo poco se ne andò via. A quel punto Piero mi fa: ‘L’hai riconosciuto, vero? Era Ionesco’. E io – ti dico la verità – che non pensavo nemmeno fosse vivo! Era una figura diversa da come uno se la poteva aspettare. Cordiale, molto simpatico, ma sembrava ossessionato da quella cartella, se la doveva portare sempre dietro”.
La sensazione è che basti uno spunto e si potrebbe continuare all’infinito, in un’eco interminabile – e affascinantissima – di persone, artisti, romanzi. Però ordine. Torniamo al principio. Torniamo al ritratto del lettore da cucciolo.
La letteratura per l’infanzia? “Una balla. ‘Harry Potter’, ‘Pinocchio’, non sono solo per ragazzi”
“L’edizione de L’isola del tesoro che ho letto da bambino, forse il primo libro che ho amato, era una di quelle abbreviate, per ragazzi. Ma io credo che la letteratura per l’infanzia sia una grandissima balla. Harry Potter non è solo un libro per ragazzi. Prendiamo Pinocchio: da un certo punto di vista è fantascienza, è giallo, è azione. E’ un libro eterno. Ma anche oscuro, può crearti delle turbe. Questa capacità, io non so se i ragazzi oggi ce l’abbiano, chissà, forse no, o forse meno di un tempo… Ma ecco, questa capacità di mettersi in isolamento con un libro, questa possibilità di darsi a un colloquio con qualcuno che è morto da tre secoli e che sta in un altro mondo, è ancora fondamentale. La cultura umanistica è questo: non sentirti mai solo, perché c’è sempre chi ti parla e ti può insegnare qualcosa. Io è una vita che mi faccio accompagnare da Montaigne. L’ho riletto non so quante volte”. Anche l’edizione che tiene sul comodino della camera da letto è sottolineata, e li dimostra tutti, i pensieri che hanno camminato tra quelle righe. “Chi non li ha letti è convinto che i Saggi siano difficilissimi, ma non è così. E’ una lettura scorrevole, necessaria. In ogni caso, se c’è una cosa che ho imparato con l’età, è che un libro, col tempo, cambia pelle”.
“Fra gli italiani amavo gli scrittori-conversatori. Gli autori oggi sono autocentrati, una noia mortale”
Il primo vero grande amore? “A quindici anni, Ernest Hemingway. Che a venticinque scrisse il romanzo di sei parole più bello di sempre: ‘Vendesi scarpine da neonato mai usate’. Ci vinse una sfida nel suo periodo parigino, quello di Festa mobile, un altro dei miei immancabili insieme a Al di là del fiume e tra gli alberi. Mai amato, invece, Fiesta, che racconta una realtà che esisteva solo nel romanzo, fasullo e artificiale, tipo I vitelloni senza l’ironia. Ma diciamo che in lui, in generale, ho sempre trovato un respiro inimmaginabile nella letteratura italiana”. Di cui però ha conosciuto in prima persona un importantissimo esponente. “Leonardo Sciascia. La prima volta fu in Campidoglio, poi da lui a Racalmuto. Era silenzioso, reticente, non un gran conversatore. Fumava queste sigarette piccolissime. Occhi capaci di registrare ogni cosa, sembrava un bambino che guardava il mondo per la prima volta. Quando l’ho conosciuto io era già un monumento, ma non è mai stato il mio scrittore preferito. Certo, Il consiglio d’Egitto è un gran romanzo”. Altri autori italiani amati? “Un’intera generazione… Scrittori-conversatori, che hanno vissuto l’epoca dei caffè. Penso a Ennio Flaiano, uno che con la tv avrebbe fatto furori. La sua capacità di raccontare il mondo in quattro righe resta insuperata. Ricordo un suo piccolissimo racconto, in cui c’è lui che va dalla cassiera del bar. Lei lo guarda e gli dice: ‘Eh vede, dottore, sto invecchiando: adesso, quando do il resto, la gente lo controlla’. Oggi lo scrittore italiano è completamente autocentrato, una noia mortale. Ogni tanto ne leggo uno e vorrei dirgli: ‘Smettila, tu mi devi raccontare delle storie!’”.
Il Camilleri riluttante. “Nessuno credeva in lui, io non mi stancherò mai di celebrare la sua scrittura”
E sì che il destino di un notissimo scrittore italiano è legato proprio a lui. E il suo ruolo è celebrato anche nel relativo Meridiano Mondadori. “Andrea Camilleri mi è entrato dentro immediatamente, quando ancora non era Camilleri, con La forma dell’acqua. Nel 1991, sua figlia Andreina, mia segretaria di redazione, viene da me e mi dice: ‘Mio padre è in pensione, ha scritto un giallo e gli farebbe piacere se lo leggessi’”. Facile impallidire. Prefigurazione infera. “Infatti ho detto: ‘No, per favore’. E lei: ‘Ma lui ci tiene molto’. Al che, alle strette: ‘Va bene, ne leggo tre pagine e vediamo’”. E come andò? “Che passai la notte inchiodato al primo Montalbano. La mattina dopo vado da Andreina. ‘Tuo papà è un genio’. E lei: ‘Ma non concluderà mai nulla nella vita’. Alla fine il romanzo lo pubblica, gli facciamo un’intervista di un’ora e lui mi dice molto chiaramente: ‘Finisce qua, io volevo solo provare per vedere se sapevo scrivere un giallo, l’ho scritto, mi sono già stufato’. Ma era un peccato, anche perché il personaggio custodiva già in sé la serialità, e poi Andrea aveva studiato Maigret. Pian piano, lavorandolo ai fianchi, insistendo io, insistendo Elvira Sellerio, insistendo Andreina, l’abbiamo costretto a diventare il grande scrittore che è stato”. Mostra copia originale: una dedica vergata con grafia appresa in istituti scolastici di epoche svanite. Caro Romeo, per pura stima personale, senza richiesta di promozione, Andrea Camilleri.
Il Meridiano la racconta così: “E’ un funzionario della Rai, Carlo Romeo, che in quegli anni lavora a Teleroma, il sostenitore dell’opera di Camilleri. (…) Le osservazioni di Romeo, alcune lettere di ammiratori che cominciano ad arrivare, gli incoraggiamenti di Elvira Sellerio che gli comunica come le vendite dei suoi libri stiano crescendo di giorno in giorno, lo convincono a continuare”. Il Camilleri riluttante. “Lui voleva fare i grandi romanzi storici, come Il re di Girgenti, e considerava Montalbano un prodotto occasionale. Ma io non mi stancherò mai di celebrare la sua scrittura. Come ne Il Birraio di Preston: la scena della rivolta all’interno del teatro, con gli attori chiusi dentro dal Prefetto”. In effetti un mazzetto di pagine esilaranti. “Era così evidente che avesse una scrittura capace di raccontare bene qualsiasi cosa… Io poi ho una convinzione: non esiste trama, esiste lo scrittore. Come Xavier de Maistre con Viaggio intorno alla mia camera: l’ha scritto un ufficiale agli arresti per far passare il tempo. Non racconta niente ma racconta tutto. Probabilmente non ci credeva nemmeno lui. Di certo in Camilleri non ci credeva nessuno. Prima di pubblicare e fino alla pensione era considerato un funzionario come tanti, un po’ grigio, introverso. Intanto, lui, in sessant’anni, aveva accumulato dettagli e osservazioni. Il Fondo Camilleri, in questo senso, è emblematico: Andrea aveva conservato la sua agendina del 1943 e le lettere alla madre. Aveva una passione morbosa per la scrittura”. Ed è proprio Romeo a fargli l’ultima intervista. Si intitola Il conto torna. “Mi disse: io ho 95 anni. Sono diventato cieco da tre. La vita l’ho goduta”. Niente di meglio di un capitano di lungo corso che arriva alla fine potendo dire: sì, ha avuto un senso.
Navigando tra gli scaffali di casa Romeo non si sfugge: mare e mare. Patrick O’Brian e tutto il mondo Mursia di Vito Dumas, Robin Knox-Johnston, Joshua Slocum. E Bernard Moitessier, uno che abbandonò la Golden Globe Race e un mucchio di quattrini nel timore che il successo l’avrebbe distolto da una vita tutta dedita alla vela. Come previsto, doppiò i tre capi (quello di Buona Speranza, di Leeuwin e Horn), poi mollò il primo posto quando mancava pochissimo. Le definì “le frontiere del troppo”, e girò le vele. Grandi mari, grandi gesti.
E grandi simboli. “Anche con Joseph Conrad è stato colpo di fulmine. E pensare che era massacrato dai critici perché dicevano che era un marinaio con velleità di scrittore. La linea d’ombra e Al limite estremo sono, invece, due grandi racconti: nel primo c’è il giovane comandante che diventa adulto con il primo comando; nell’altro il vecchio comandante che diventa cieco ma non lo può dire perché sennò perde il lavoro”. Due parabole perfette: l’inizio e la fine. In mezzo, il mare. Questo mito, questa fissazione ellenica. Perché, diceva qualcuno, esistono solo i vivi, i morti e i naviganti.
Intervista a Gabriele Lavia