riletture

Amare Pascoli e la sua attenzione dolce e malinconica per le piccole cose

Stefano Picciano

L’ipotesi che anche la cosa più semplice meriti tutta la nostra attenzione è qualcosa di rivoluzionario perché nel momento in cui soffermiamo davvero lo sguardo, ecco che quel frammento di realtà inizia a svelarci sé stesso

Di tanto in tanto riprendo in mano la voluminosa raccolta delle opere di Giovanni Pascoli e più di frequente ciò accade nelle sere di agosto, quando il cielo notturno richiama uno dei suoi componimenti più celebri. Per lunghe serate vi sono tornato, in qualche modo spronandomi a chiarire a me stesso quale fosse l’origine del fascino destato in me da quei versi, finché la meta di questa ricerca si è fatta d’un tratto più nitida: ciò che mi conquista è l’attenzione – dolce e malinconica a un tempo – per le piccole cose. Il gallo che canta in un’aia, le ginestre nel greto, l’uomo che miete il grano e le rondini nell’uliveto; una culla che dondola pian piano, la neve che fiocca lenta, lenta, lenta. E’ del resto il cuore stesso della poesia, questa inclinazione a cogliere con inattesa chiarezza la densità delle cose, mettere in luce d’un tratto il rilievo di ciò che altrove parrebbe ordinario, evidenziare l’inaspettata novità di ciò a cui normalmente rivolgeremmo uno sguardo superficiale. La inquieta immagine di un nido nell’ombra che attende, la solitudine di un aratro in mezzo al campo e, soprattutto, la mai pronunciata parola albero – troppo generica – che si declina nel prunalbo, gli albicocchi, la quercia, gli ulivi. 

 

Amate tutta la creazione divina nel suo insieme, amate ogni foglia, ogni raggio di luce, amate le piante, gli animali, tutte le cose”, scriveva Dostoevskij. L’ipotesi che anche la cosa più semplice meriti tutta la nostra attenzione è qualcosa di rivoluzionario (ricordo, con tenue autoironia, di aver preteso un giorno che gli studenti facessero un tema su una mela che avevo appoggiato sulla cattedra) perché nel momento in cui soffermiamo davvero lo sguardo, ecco che quel frammento di realtà – quasi volesse ricambiare l’attenzione con cui viene guardato – inizia a svelarci sé stesso, lasciando emergere dettagli, particolari, sfumature prima invisibili. Perché, come ha scritto Simone Weil, “più il pensiero è attento, più la realtà si riempie di essere”. E’ il cadere fragile di foglie, sono gli arcolai ronzanti di fanciulle che tessono alla finestra; è un sospiro di vento, sono i rami che – in uno dei versi più belli – “di nere trame segnano il sereno”. Recuperare quell’indugiare nell’istante che ci permette di cogliere più pienamente la realtà, per quella ineffabile vibrazione dell’essere che ci sorprende quando d’improvviso scorgiamo in un istante, in un volto, in un dettaglio, qualcosa di più di ciò che di norma eravamo in grado di vedere. 

 

Negli scritti di Max Picard trovo un’analoga tensione a ripristinare il contatto tra l’essere umano e la realtà, in particolare quando il filosofo afferma che un tempo “le cose esistevano ed erano presenti (…). Oggi le cose non esistono più nella loro presenza, una cosa potrebbe benissimo sostituire l’altra e proprio per questo nessuna cosa ci sta più veramente dinanzi”. E’ un atteggiamento perduto, quella posizione davanti alle cose che ci accorgiamo di poter imparare dai bambini (non a caso Dostoevskij scriveva che “quando un uomo ha grandi problemi dovrebbe rivolgersi a un bambino”). E’ la melodia di un canto lontano e la sorpresa di un lampo nella notte nera; poi il pianto di un bimbo nella culla e – con subitaneo passaggio dal particolare all’infinito – le stelle che nel cielo passano pian piano. 

 

“M’affaccio alla finestra e vedo il mare”: l’avventura inizia nel momento in cui ci rendiamo conto che ciò che consideriamo scontato non è tale. E’ qualcosa di analogo all’improvvisa consapevolezza espressa, in uno sguardo fuori dalla finestra, da Guido Gozzano: “Ma sono / stupito se guardo il giardino… / (…) Stupito di che? Delle cose. / I fiori mi paiono strani: / Ci sono pur sempre le rose, / ci sono pur sempre i gerani…”. “La più bella e profonda emozione che possiamo provare è il senso del mistero”, diceva Albert Einstein. Zu den sachen selbst, dunque: ritornare alle cose. La questione, in fondo, è tutta qui. Perché, come notava Oscar Wilde, “il vero mistero del mondo è il visibile, non l’invisibile”.

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