Jeff Bridges in “Il grande Lebowski”, film del 1998 diretto da Joel ed Ethan Coen, con le cuffie su “quel tappeto” 

Viaggio nel mare agitato dei podcast, la bolla che non scoppia

Enrico Cicchetti

Da anni ci raccontiamo di un’età dell’oro dell’audio. Ma dall’America soffiano venti di crisi, con i grandi investitori che si fanno più cauti. Come sta il mercato italiano, secondo chi ci lavora

C’è un’interferenza che disturba il coro altrimenti entusiasta che da anni canta di “un’età dell’oro” dei podcast. Arriva dagli Stati Uniti, dove si inizia a dire che i giorni della giovinezza spensierata, i podcast potrebbero averli ormai alle spalle. Dallo scorso anno, scrive Bloomberg, “dopo una prolungata frenesia di acquisizioni, alcuni dei più grandi investitori stanno ridimensionando le loro attività”. Pesano le preoccupazioni per la recessione e le cautele degli inserzionisti. Con una bella immagine la Bbc aveva definito il podcast “cinema per le orecchie”. E se il mondo del grande schermo è in subbuglio, con gli scioperi di sceneggiatori e attori, le lacrime dei signori degli studios e le palpitazioni dei re delle piattaforme, anche nel settore dell’audio-intrattenimento ci si prepara alla turbolenza.

 

Per farsi un’idea di cosa si muova oltre Oceano (dove il podcasting vale 1,8 miliardi di dollari secondo l’Iab, Interactive Advertising Bureau) è utile guardare al caso di Spotify, il servizio di musica in streaming più famoso al mondo e leader del settore podcast in diversi mercati, tra cui l’Italia. La società svedese sostiene di avere registrato una crescita globale del 1.400 per cento degli ascolti di podcast rispetto al 2018, di avere oltre 100 milioni di ascoltatori di podcast al mese (quindi un utente su cinque della piattaforma, alla quale è iscritto più di mezzo miliardo di persone), 220 milioni di abbonati e 5 milioni di spettacoli disponibili. Ma il cfo Paul Vogel ha anche ammesso, parlando al Financial Times, che i podcast sono stati un “grande ostacolo” nel 2022 e prevede che per la società il podcasting “diventerà redditizio entro il 2024”. Bene, ma intanto? Sebbene i ricavi del gruppo siano aumentati dell’11 per cento rispetto a un anno fa e si assestino a 3,2 miliardi di euro, la perdita operativa nel secondo trimestre 2023 è più alta del previsto: 247 milioni di dollari (un valore che rettificato, cioè espunti gli oneri legati alle azioni una tantum intraprese nel trimestre per razionalizzare le operazioni e ridurre i costi, si aggira sui 123 milioni di dollari). Quando è uscito questo dato, martedì 25 luglio, le azioni della società sono crollate del 14 per cento.

 

A gennaio scorso, l’azienda svedese ha annunciato l’addio di Dawn Ostroff, che era la responsabile dei contenuti. Ostroff è la manager che ha guidato la spinta al podcasting “modello Netflix”, ovvero attrarre iscritti da convertire in abbonati (che generano circa il 90 per cento dei ricavi dell’azienda). In quell’ottica negli scorsi anni Spotify ha comprato tre grandi studi di produzione (per quasi 500 milioni di dollari in totale) e investito su costosissimi accordi di esclusiva, come quello da 200 milioni con il comico e commentatore Joe Rogan o la partnership da 20 milioni con il principe Harry e Meghan Markle. Ma le cose non sono andate come sperato. Rogan, tra battute razziste e bufale sui vaccini, è costato alla società la fuga di star della musica del calibro di Neil Young e Joni Mitchell. Mentre lo stra-pubblicizzato podcast “Archetypes”, conversazioni “a cuore aperto” della duchessa del Sussex, è stato un flop: a giugno è stato annunciato che la sua seconda stagione non vedrà la luce e Bill Simmons, capo dell’innovazione e della monetizzazione dei podcast di Spotify, ha definito gli (ex) reali due “fucking grifters”. Due “emeriti imbroglioni”, per usare un eufemismo. Nello stesso periodo, il gigante dello streaming ha annunciato il licenziamento di circa 200 persone nel ramo podcast, il due per cento dei dipendenti – che si aggiunge al quasi 5 per cento del team lasciato a casa a gennaio – e ha cancellato molti show. Consolazione da poco: la ditta di Daniel Ek non è la sola a essere inguaiata. Anche il colosso dei podcast Acast ha cacciato il 15 per cento dei suoi e l’ad di Audioboom, quarto editore più grande d’America, ha accennato a licenziamenti di massa. I ricavi di Audioboom nel primo semestre 2023 sono calati di quasi il 30 per cento rispetto a un anno fa. 

 

Adesso Spotify sembra puntare al “modello YouTube”, basato sul lavoro dei creator e sulla vendita della pubblicità. E dunque stop alle esclusive e alle mega acquisizioni, un freno alla programmazione di original in favore di contenuti prodotti dai creator, ben più economici per l’azienda. Non a caso Spotify punta su Megaphone, la sua piattaforma per pubblicare podcast e monetizzare con l’adv, anche su piattaforme esterne. Nel secondo trimestre i ricavi pubblicitari dei podcast sono aumentati di oltre il 30 per cento rispetto al 2022. “Di recente abbiamo lanciato la nuova versione di Spotify for Podcasters, che ora include il meglio degli strumenti per i creator in un unico hub; stiamo pianificando la funzione di monetizzazione dei contenuti podcast e ampliando la nostra offerta di video podcast. Abbiamo annunciato una partnership con Patreon, che consentirà ai creator di ricevere pagamenti diretti dai loro fan”, ha detto al Foglio Eduardo Alonso, responsabile podcast di Spotify per il sud e l’est Europa. “La monetizzazione è già una realtà e Spotify sta facendo passi da gigante per la pubblicità audio, implementando nuove opportunità sia per i creator che per gli inserzionisti”, ha aggiunto. Ma per chi i podcast li fa, il panorama che le grandi piattaforme prospettano somiglia molto a un disinvestimento. 

 
È difficile che la sola pubblicità possa rendere sostenibile il mercato. Altri player, come Audible e Storytel, hanno introdotto una logica a subscription “all you can eat”; altri ancora, come Apple Podcast, danno la possibilità agli utenti di abbonarsi al singolo show. E a proposito di YouTube: da un anno la controllata di Google ha deciso di lanciarsi nel podcasting e potrebbe portare via ai competitor una grossa fetta di mercato. Dopo il lancio in America alla fine di aprile, YouTube Music sta iniziando a introdurre sezioni podcast anche in altri paesi. Insomma, il mare è insidioso e agitato e i big hanno deciso di muoversi con cautela. Ma da qui a parlare di una bolla che sta per scoppiare ce ne passa. Anche perché, difficoltà a parte, il settore è promettente: un documento preparato da PwC per l’Iab prevede che le entrate dell’audio digitale raggiungeranno i 4 miliardi di dollari entro il 2025. Né sembrano esserci problemi di audience, che continua a crescere, globalmente, di anno in anno. E in Italia cosa succede?  

 

Il mercato del podcast italiano è decisamente più embrionale, tanto che è difficile anche definirne il valore complessivo. Nel nostro paese, spiega l’Osservatorio Digital Content - School of Management del Politecnico di Milano, “siamo agli albori, con una spesa dei consumatori di pochi milioni di euro”. Anche il modello di business che fa leva sulla pubblicità è debole, dice il PoliMi. Il mercato dell’audio advertising italiano si sta formando ora: vale circa 20 milioni di euro, in crescita, ma con un peso inferiore all’uno per cento sul totale dell’adv digitale. Complicato monetizzare quindi, per distributori e produttori. C’è sempre la nota positiva, che riguarda gli ascolti. Secondo l’ultima ricerca di NielsenIQ per Audible sarebbero 16 milioni e mezzo gli ascoltatori italiani di podcast nell’ultimo anno. Un milione in più rispetto al 2022 e un impressionante più 60 per cento sui cinque anni. Un’altra citatissima indagine, quella di Ipsos, a ottobre 2022 parlava di 11 milioni di ascoltatori in Italia.

 

Sono cifre attendibili? Non è chiaro, perché una buona parte è autocertificata dalle stesse piattaforme. E poi perché andrebbe definito che cosa si intende per “ascolto”: dieci secondi, metà podcast, un episodio intero? “E’ verosimile parlare di sedici milioni di ascoltatori? Sarebbero più del doppio degli elettori di Giorgia Meloni. Queste statistiche servono ad annusare l’aria, non a piantarci su le fondamenta di una casa”, dice Jonathan Zenti, audio designer che il podcast ha avuto la fortuna di vederlo nascere e crescere. Uno che ha vinto due tra i più prestigiosi premi internazionali, per i fan delle stelline da appuntare al petto. “Dimostrano però che gli ascoltatori ci sono. L’audio, che è sempre stato un’esclusiva delle radio, da vent’anni non lo è più: adesso la grossa scommessa è quella di capire se il podcast può diventare un’industria stabile come la discografia, l’editoria, il cinema. Più che una bolla che sta per esplodere siamo di fronte a un’onda che si abbassa. Cominciamo a navigare su un mare piatto e non rigonfio. Di fronte al crollo dell’adv digitale si cominciano a fare i conti con la realtà. A rimettere gli ascoltatori al centro: a chiedersi di cosa serve parlare e quali voci abbiamo bisogno di ascoltare”.

 

Capire cosa vogliono gli ascoltatori è la chiave per il successo. Se trovare casi fallimentari come il podcast dei duchi del Sussex, nel panorama italiano, è pressoché impossibile per una questione di scarsa trasparenza (non sappiamo quanto vengono pagati i podcast né quanti ascolti facciano esattamente), è piuttosto facile trovare i casi di successo: sono quelli di cui parlano tutti. E questo è vero anche tra i produttori indipendenti. Negli scorsi anni il podcast più ascoltato era quello creato da Fabrizio Mele, con le ormai celeberrime lezioni del prof. Alessandro Barbero. Oggi “Passa dal BSMT” del self made man Gianluca Gazzoli (già voce di Radio Deejay) è uno dei più seguiti. Altro podcast di sicuro successo è quello di Stefano Nazzi per il Post, “Indagini”, che sfruttando il gettonatissimo filone del “true crime” è riuscito a rivoluzionare la cronaca nera, rendendola essenziale e senza morbosità. Nei primi venti giorni dopo il lancio di “Altre Indagini”, spinoff riservato agli iscritti, gli abbonamenti al giornale online sono cresciuti del 206 per cento rispetto allo stesso periodo del mese precedente. Il Post è un buon esempio. “E’ un magazine online che basa la sua sostenibilità sugli abbonati e che ha deciso di avere come ulteriore bocca di fuoco, oltre al testo, anche l’audio”, dice Matteo Caccia, responsabile della sezione podcast. “Per fortuna sono arrivato al Post nel settembre 2022 e ‘Indagini’ esisteva già da aprile”, scherza Caccia, forte della sua esperienza quasi ventennale come conduttore radiofonico prima ancora che come autore di podcast. “Perché se mi avessero proposto un mensile, narrato da una voce singola e con pochissimi contributi audio, probabilmente avrei detto che non era il caso di farlo”. Ecco, se il commissioning è in crisi, con le piattaforme che acquistano solo prodotti di sicuro successo, il rischio è quello di rinunciare al prossimo “Indagini” o perdersi il Gazzoli del futuro.

 

Ma il settore è comunque promettente, garantisce Rossana De Michele, ad e fondatrice di Storielibere.fm. “Fino all’anno scorso beccavi gli avanzi di budget delle aziende, oggi la maggior parte ha una cifra dedicata ai podcast, che entrano fra i dispositivi per comunicare i valori dei brand. E questo cambia tutto”. Ma come stanno, appunto, le case di produzione italiane? Storielibere è una delle più in vista, coi suoi seguitissimi “Morgana”, il podcast di Michela Murgia e Chiara Tagliaferri, e “F***ing Genius” di Massimo Temporelli. Con venti dipendenti, un fatturato 2022 di oltre 700 mila euro e un utile in rosso di mezzo milione, è convinta di andare in pareggio nel 2024. Anche nel business plan di Chora Media si punta al pareggio per l’anno prossimo. Ma la casa di produzione, che opera attraverso la holding Be Content srl e che risulta ancora start-up, non sta andando come sperato. Si aspettava di chiudere il 2022 con cinque milioni di euro di ricavi, mentre il bilancio appena depositato si ferma a tre milioni. Certo, rispetto ai 460 mila euro del 2021 la parola “deludente” non sarebbe azzeccata. Eppure le previsioni erano altre. Chora è in rosso di 1,8 milioni di euro che si sommano ai 2,4 milioni di perdite dell’anno precedente. Dopo la ricapitalizzazione i debiti ammontano a 11,3 milioni di euro. E poi tra chi produce più contenuti c’è OnePodcast, della “corazzata” Gedi. Nel 2022 il gruppo editoriale controllato da Exor è tornato all’utile, sulla spinta della digitalizzazione: ha infatti acquisito una partecipazione in Stardust, lanciato OnePodcast e sviluppato i content hub. L’utile netto comunque ha beneficiato degli abbondanti tagli e delle cessioni di Espresso e Nuova Sardegna.

 
“Quello sulla crisi del podcast è un discorso viziato”, dice al Foglio Pablo Trincia, che con il suo “Veleno” ha spalancato le porte del podcast all’Italia e che proprio in Chora è direttore creativo e docente della divisione Academy (che offre formazione a 120 podcaster, dai 1.190 ai 1.590 euro più cinque posti gratis per persone con possibilità economiche ridotte. Un’altra maniera di incassare con i podcast). “Può esserci crisi nel sistema produttivo degli Stati Uniti, che ha più investimenti e molti più professionisti coinvolti dell’Italia. Gli americani hanno costruito un transatlantico in una piscina. Qui siamo ancora al varo della nostra barchetta”.


“E’ una fase di risacca ma la crescita è impressionante. Certo, nel breve termine ci saranno parecchi feriti”, conferma Fabio Ragazzo, produttore, autore e direttore artistico del Pod - Italian Podcast Awards. Nel ridimensionarsi del boom dei podcast c’è un aspetto positivo, dice. Perché la barriera all’ingresso è bassissima (chiunque può fare podcast, basta un microfono, un pc e un programma di montaggio) ma farli bene è davvero difficile. E la sovrabbondanza di prodotti di bassa qualità può danneggiare la scena: “Se i primi show che ascolti sono di bassa qualità non ne ascolterai più”. Quello che si registra a livello globale, in effetti, è un netto calo nella produzione di contenuti. Stando ai dati di Listen Notes, rispetto al milione di nuovi podcast del 2020 – un picco dovuto alla pandemia –, nel 2022 erano scesi a 234 mila e alla fine di maggio di quest’anno sono stati pubblicati “solo” 82.000 nuovi podcast. Anche per via, appunto, della stretta data quest’anno dai grandi investitori che avevano retto la fase di avviamento. “Le grandi piattaforme tendono a produrre meno e andare più a colpo sicuro”, conferma Ragazzo. “Ma ci sarà sempre posto per voci con un pubblico di nicchia, per storie forti e meno note”. Il podcast è sempre stato questo, in fondo: un modello di comunicazione narrowcasting, dove è il pubblico a scegliere i suoi contenuti.

  

Anche per Audible la produzione di contenuti originali in italiano è diminuita nel tempo e nel corso del 2023, stando a quanto dicono alcuni esperti del settore sentiti dal Foglio, sembra che Audible dimezzerà il numero di Original che produce. “I nostri investimenti nella produzione di nuovi contenuti sono cospicui”, ci risponde Juan Baixeras, country manager di Audible per Italia e Spagna. “Nell’ultimo anno Audible ha investito sul segmento Italia circa cinque milioni di euro, di cui quasi due milioni per la produzione di Original. A oggi abbiamo 60 mila titoli in catalogo e 14.700 sono in italiano. Nel 2016 erano solo 1.500”. Una minore quantità di contenuti prodotti non significa in effetti che le piattaforme abbiano smesso di investire sulle produzioni di qualità. E’ con quella che si emerge, ci assicura Baixeras. “Siamo nell’infanzia di questa industria che ogni giorno conquista nuovo pubblico sulla base della qualità del contenuto. Qualità che si ottiene lavorando con i migliori esponenti della classe creativa italiana”.

 
Anche secondo Spotify, che a livello di ascolti nel nostro paese fa la parte del leone, il futuro dell’audio intrattenimento è appena iniziato. “Oggi sono disponibili circa 50 mila podcast in lingua italiana. Solo nel 2022 abbiamo registrato un incremento del 20 per cento rispetto all’anno precedente degli show di creator italiani”. In questa che rimane comunque un oceano ricchissimo di contenuti, di possibilità di monetizzazione, di classifiche più o meno realistiche e di prodotti più o meno meritevoli, resta la grande domanda: ma alla fine, con i podcast, ci si guadagna? “Come per i libri: se ci sono 30 scrittori che campano vendendo le proprie opere, coi podcast saranno in cinque”, sostiene Caccia. Allora perché si fanno? “Perché con mezzi tutto sommato semplici e qualche abilità tecnica puoi essere ascoltato da un pubblico enorme: non per soldi, ma per prestigio, perché ti apre altre possibilità. È un investimento per la propria professione”. Il successo di uno spettacolo è un duro lavoro, anche perché sono in tanti a competere per l’attenzione. Per ogni Barbero, ci sono centinaia di podcaster che lavorano nell’oscurità. “In pochi guadagnano davvero”, ammette Pablo Trincia. “Ma il metro è vedere se i big sono sostenibili, capire quali sono le operazioni di successo”. Oppure, gli fa eco De Michele, “occorre ragionare in funzione della intellectual property: produrre un podcast che si trasformi in un libro, uno spettacolo teatrale, un festival, una serie tv”. Secondo Trincia, “il problema se mai è che il podcast è ancora solo un prodotto urbano e nelle campagne non è ancora arrivato”. C’è un continente inesplorato fatto di orecchie da raggiungere e di storie da raccontare. Insomma, “diamoci ancora un attimo, c’è tanta strada da fare”.

  • Enrico Cicchetti
  • Nato nelle terre di Virgilio in un afoso settembre del 1987, cerca refrigerio in quelle di Enea. Al Foglio dal 2016. Su Twitter è @e_cicchetti