(foto Unsplash)

Fake news e complottismo No vax: Spotify non è rock

Stefano Pistolini

Neil Young e Joni Mitchell si gettano contro il colosso della distribuzione musicale in nome di un antico romanticismo e di un attualissimo problema con la disinformazione. E ora la domanda è: profitto o coscienza?

Una valanga che potrebbe sommergerli. Alla fine sono stati i canadesi a dire ciò che non ci si aspettava di ascoltare: due vecchi, stimati signori della musica ancora non disposti a deporre le armi, per quanto possano dolere le loro articolazioni. Neil Young, 76 anni, e a ruota Joni Mitchell, 78. Più di mezzo secolo orsono scesero dal freddo nord per diventare protagonisti del suono della California e idoli planetari intramontabili. Adesso, per quanto malandati, Neil e Joni uniscono le forze per una protesta che potrebbe diventare uno tsunami sul tremebondo mercato della musica d’oggi, trasformando Spotify, il servizio streaming che ha contribuito a rivoluzionarne i consumi, nel terreno di un duro scontro politico-culturale. 

  

I fatti: lunedì scorso Neil Young pubblica sul suo sito una lettera aperta indirizzata al manager e alla propria etichetta discografica, in cui chiede la rimozione della sua musica dalla piattaforma Spotify accusandola di diffondere tramite i podcast informazioni false sui vaccini anti Covid. La protesta s’indirizza in particolare contro “The Joe Rogan Experience”, il podcast dell’omonimo conduttore, titolare di posizioni scettiche e provocatorie sui vaccini e sostenitore di teorie complottiste e di pericolose “cure” alternative: “Voglio rimuovere tutta la mia musica dalla piattaforma, perché Spotify diffonde falsa informazione sui vaccini, contribuendo potenzialmente alla morte di chi crede a questa disinformazione. The Joe Rogan Experience, ospitato esclusivamente da Spotify, è il podcast più ascoltato del mondo e ha un’enorme influenza. Spotify ha la responsabilità di mitigare la diffusione della disinformazione sulla piattaforma. Agite subito: Spotify può avere Rogan o Young. Non entrambi”, scrive il cantautore. 

  

Joe Rogan è il convitato di pietra di questa vicenda, forte della sua straordinaria popolarità in America. Ex telecronista di wrestling, ex sostenitore di Bernie Sanders nel 2020 (poi finirà per preferire Donald Trump a Joe Biden), politicamente difficile da collocare, parla di giustizia sociale come un astuto populista e ospita con entusiasmo personaggi dell’alt-right come il teorico della cospirazione Alex Jones e il cofondatore dei Proud Boys, Gavin McInnes. E’ classificabile come un libertario contrarian con un’inclinazione a destra e rovistando tra le cronache recenti, si scopre che nei mesi scorsi ha avuto il Covid e sostiene d’essersi curato con l’ivermectina, farmaco utile per eliminare i parassiti dagli umani e dagli animali domestici, inducendo migliaia di americani a imitarlo, con un farmaco inefficace contro la malattia. Il 31 dicembre Rogan ha ospitato nel suo podcast il contestato virologo Robert Malone, un complottista che se ne va in giro dicendo che gli ospedali americani avrebbero lucrato sui dati falsi del numero di morti per Covid. Questo episodio ha provocato la protesta di 270 medici, con una lettera inviata a Spotify in cui si definisce Rogan “un pericolo per la salute pubblica”. 

 

Questa protesta potrebbe generare un effetto domino sul tremebondo mercato della musica d’oggi

   

Nel maggio 2020 Rogan ha firmato un’esclusiva da 100 milioni di dollari con Spotify, in cambio dei diritti del podcast, ma non della sua proprietà – il che significa che, se licenziato, andrebbe in cerca di una distribuzione ancor più vantaggiosa di quella che ha adesso. Del resto l’affare c’è stato: 11 milioni di ascoltatori a puntata, con Spotify che ha aumentato da 144 a 172 milioni il numero degli abbonati da quando lo ha assoldato, cifra che spiega perché al sorgere di questa grana la società abbia presumibilmente calcolato che il vantaggio finanziario di difendere Rogan avrebbe superato il costo reputazionale provocato dalla presa di posizione di Neil Young e soci. Sotto l’aspetto affaristico, Young non compete con Rogan. Così, in prima battuta, Daniel Ek, ceo di Spotify si è salomonicamente limitato a dire: “Vogliamo che i creatori creino. E’ ciò che sanno fare. Ma non vogliamo avere un ruolo in ciò che diranno”. E mercoledì Spotify ha risposto all’ultimatum di Young, rimuovendo il suo intero catalogo dalla disponibilità degli abbonati. Un portavoce dell’azienda ha comunicato: “Vogliamo che tutti i contenuti musicali e audio del mondo siano disponibili per gli utenti di Spotify. Ne deriva la responsabilità di bilanciare la sicurezza degli ascoltatori con la libertà dei creativi. Abbiamo norme dettagliate che regolano i contenuti e fin dall’inizio della pandemia abbiamo cancellato oltre 20 mila podcast con contenuti impropri relativi al Covid-19. Dunque ci rammarichiamo per la decisione di Neil di rimuovere la sua musica da Spotify, ma speriamo di potergli dare presto il bentornato”. Come dire: quando il gioco si fa duro eccetera eccetera. E i gloriosi album di Young, da “After the Gold Rush”, ad “Harvest”, fino alla recente, prolifica produzione, sono scomparsi dagli elenchi cliccabili del sito.

  

La cosa però non è passata sotto silenzio. Tedros Adhanom Ghebreyesus, capo dell’Organizzazione mondiale per la sanità, ha ringraziato pubblicamente la rockstar della presa di posizione contro la disinformazione. E sui social si è scatenato il tam tam dei supporter di Young in favore del boicottaggio a Spotify. L’hashtag #CancelSpotify è diventato la parola d’ordine.  Nemmeno 48 ore e venerdì Joni Mitchell è scesa in campo a solidarizzare col vecchio amico e partner musicale che, come lei, contrasse la poliomielite negli anni Cinquanta, prima che venisse sviluppato un vaccino in grado di curarla. Sul suo sito Joni ha pubblicato il messaggio “Io sto con Neil Young!” scrivendo: “Ho deciso di rimuovere la mia musica da Spotify. Degli irresponsabili stanno diffondendo bugie che costano la vita a tanta gente. Su questo tema mi schiero a fianco a Neil Young e alla comunità medico-scientifica”. Young le fa eco lo stesso giorno, con un post nel quale dice di “sentirsi meglio” per aver lasciato Spotify: “Le aziende private hanno il diritto di scegliere da cosa trarre profitto. Ma io posso scegliere di non mettere la mia musica su una piattaforma che diffonde disinformazione. Sono orgoglioso d’essere al fianco degli operatori sanitari che ogni giorno rischiano la vita”. Nell’occasione, Young ha approfittato anche per rilanciare una antica polemica nei confronti di Spotify riguardo alla discutibile qualità audio del suo servizio streaming, secondo lui irrispettoso del lavoro degli artisti. Young, in sostanza, attacca a 360 gradi Spotify per aver scelto “il business rispetto all’arte”, anche su questo versante fornendo un prodotto inferiore rispetto ad altri servizi come Apple Music o Amazon Music: “Musica declassata”, la chiama lui.

  

#CancelSpotify è il nuovo, tremendo slogan. Apple Music ne approfitta: “Venite da noi”, siamo la casa di Young

   

Young elogia inoltre la propria etichetta discografica, Reprise Records, e il suo editore, Hipgnosis – che ha acquisito il 50 per cento del suo catalogo nel gennaio 2021 per 150 milioni di dollari – per averlo sostenuto nella richiesta di eliminare la sua musica da Spotify. E ribadisce il costo finanziario della decisione: “Lasciando Spotify, perdiamo il 60 per cento delle entrate mondiali via streaming: è un problema non da poco. Ma ne vale la pena, se contribuisce a salvaguardare le nostre convinzioni”. Conclude augurandosi che altri artisti “faranno la loro mossa” al suo fianco, ma confessando di non essere troppo ottimista al riguardo. Da bravo loner, solitario per antonomasia, il dado è tratto. E la discesa in campo della Mitchell ora apre interrogativi sul numero di star disposte a seguire il loro esempio. Mitchell oggi conta 3,7 milioni di ascoltatori mensili, molti dei quali fan affezionatissimi. Canzoni come “Big Yellow Taxi” e “A Case of You” superano i 100 milioni di ascolti.

   

Un pubblico per il quale non sarà indolore prendere atto della decisione della beniamina. Potrebbe perciò rivelarsi alto il numero di coloro che ne terranno conto, passando ad altri servizi streaming. Twitter è pieno di post di fan che cancellano gli abbonamenti e pubblicano screenshot dell’app di Spotify col messaggio dell’assistenza-clienti: “Stiamo ricevendo molti contatti, la risposta potrebbe essere lenta”. Spotify ovviamente non fa sapere quanti gli abbiano già voltato le spalle. Ma girano indiscrezioni secondo le quali i Foo Fighters di Dave Grohl starebbero vagliando la questione, mentre dagli uffici del principe Harry e di sua moglie Meghan si è espressa viva preoccupazione quanto alla realizzazione del loro podcast, per il quale hanno appena sottoscritto un accordo con Spotify. A questo punto c’è del sadismo nel tweet postato da Apple Music: “Siamo la casa di Neil Young. Venite da noi ad ascoltare tutta la sua musica”. 

  

Quel che è certo è che la decisione espressa da Spotify disegna uno scenario complesso. Non si tratta delle vecchie polemiche sulle cifre troppo basse riconosciute agli artisti, che accompagnano l’azienda dagli esordi. Qui il conflitto diviene ideologico. Allora è utile ricordare da dove venga Spotify, quali siano le sue origini: il marchio nasce in Svezia, culla dell’idea liberale, e viene alla ribalta sbandierando inconsueti princìpi del lavoro nei quali la diversity è applaudita, il congedo di paternità è incoraggiato, il benessere del personale appare determinante. Adesso però si deve fare i conti con accuse di propagazione della disinformazione. Un duro colpo che si trascina dietro interrogativi come: a quali regole devono sottostare i podcaster, anche nel caso valgano cifre-record come Joe Rogan? E’ chiaro che Spotify oggi non si consideri più un semplice servizio di streaming musicale, ma abbia messo la produzione e la diffusione dei podcast al centro del suo business, assecondando un trend che li considera il prodotto più caldo del momento, quello che, più di ogni altro, garantisce l’acquisizione e la fedeltà dei clienti. Rogan è stato pagato a peso d’oro perché magnetizza e mantiene l’attenzione di una moltitudine di abbonati. E poi ora Spotify è quotata a Wall Street e questo segna il solco nel quale maturare le strategie. In un recente passato attorno a Spotify c’erano già state polemiche per la rimozione di “contenuti di odio”, pubblicati a margine della protesta afroamericana.

  

Spotify ha già perso più di 2 miliardi di dollari  e ha rimosso oltre 20 mila episodi di podcast correlati al Covid-19

   

Ma ora siamo oltre: un attacco come quello sferrato da Neil Young, con gli effetti collaterali che potrebbe suscitare, costringerà Spotify a venire allo scoperto: profitto o coscienza? Difesa a oltranza della libertà di parola o regole di comportamento? E queste regole si estenderanno alle superstar del marchio? Introiti o reputazione? Domenica Daniel Ek, ha rilasciato una nuova dichiarazione in cui espone il piano per combattere la disinformazione sulla piattaforma: “Nuovi avvisi indirizzeranno gli ascoltatori di un podcast che parli di coronavirus a un sito web che fornisce dati fattuali, informazioni aggiornate condivise da scienziati e medici, e collegamenti a fonti attendibili”. Anche le regole di Spotify per i creatori sono state rese pubbliche per la prima volta, con la proibizione di pubblicare “contenuti che promuovano informazioni mediche false o pericolose che possano causare danni o rappresentino una minaccia per la salute pubblica”. Per i trasgressori, contenuti rimossi dalla piattaforma. All’altezza del weekend comunque, Spotify aveva perso più di 2 miliardi di dollari (1,5 miliardi di sterline) in valore di mercato e rimosso oltre 20 mila episodi di podcast correlati al Covid-19, in conformità a queste “politiche dettagliate sui contenuti”. La scenario, a questo punto, è in costante movimento.

   

A margine dello scontro, un’ultima parola su Young e Mitchell, i veterani che hanno unito le forze e sono scesi in campo, come spesso in una vita di attivismo per i diritti civili. C’è chi guarda con scetticismo ai ruoli interpretati dalle popstar nelle questioni di ordine sociopolitico. Nel loro caso, però, va detto che il blitz di cui si sono resi protagonisti è coerente con carriere che hanno sempre tenuto in primo piano la partecipazione al dibattito. Oltre a questo, è però innegabile che ci sia anche un insopprimibile romanticismo e una certa sorpresa nel constatare che una battaglia del genere risuoni ancora delle note del rock. Come se lo spirito di questa musica si fosse rialzato dalla fossa in cui è seppellito, mostrando una forza inattesa e soprattutto una dimenticata attenzione alla differenza: quella tra show business e decenza dell’arte, una distanza di cui ormai s’è perduta contezza. Nella loro vita, personaggi come Joni e Neil sono stati “contro” una serie di cose ingiuste e dimostrano di volerlo ancora essere. Il che, al di là degli scenari affaristici e delle guerre culturali, potrebbe anche produrre delle risonanze inattese. 

Di più su questi argomenti: