Daniel Ek (foto Andrew Burton/Getty Images) 

il foglio del weekend

Dalla Svezia con furore

Eugenio Cau

Ritratto del re di Spotify, il primo miliardario europeo che ha fatto i soldi con internet e ora vuole comprarsi l’Arsenal

Se sei un miliardario europeo, cinese o russo, è difficile resistere alla tentazione di comprare una squadra di calcio. I colleghi americani comprano le squadre di basket Nba o quelle di football Nfl, ma per gli altri l’ambizione principale è un club calcistico, preferibilmente inglese: ci sono caduti tutti, dagli oligarchi russi agli emiri del golfo. Dunque il fatto che lo svedese Daniel Ek, fondatore e ceo di Spotify, abbia intenzione di comprarsi l’Arsenal assieme a un gruppo di ex giocatori famosi come Thierry Henry, Dennis Bergkamp e Patrick Vieira, non è particolarmente notevole: miliardario europeo compra squadra di calcio, sai che sorpresa. Eppure la notizia almeno un po’ sorprendente lo è davvero: se l’affare andasse in porto, Daniel Ek sarebbe probabilmente il primo miliardario europeo compratore di squadra di calcio ad aver fatto i soldi con internet. E l’Europa, di miliardari di internet, non ne ha quasi nessuno – non nel senso che non ci sono altri miliardari come Ek, ma nel senso che soltanto lui è riuscito a fare come gli americani: ha creato un servizio online usato da centinaia di milioni di persone, ha rivoluzionato un intero mercato, ha portato la disruption in un’industria morente, è diventato un titano della tecnologia e si è sposato sul lago di Como. E anche se Ek e Spotify sono svedesi, l’orgoglio è europeo: Spotify è il nostro Facebook e il nostro Google, e Daniel Ek è il nostro Zuckerberg e il nostro Brin&Page.

 

Spotify, il servizio di musica in streaming più famoso e diffuso al mondo, ha cambiato per sempre l’industria della musica e secondo molti l’ha salvata dalla catastrofe della pirateria. Ha 356 milioni di utenti attivi, di cui 158 milioni pagano un abbonamento; ha entrate per oltre due miliardi di dollari, e anche se finora non ha praticamente realizzato profitti gli analisti sono concordi nel prevedere un futuro di successi. Daniel Ek, oltre a essere l’imprenditore tecnologico di maggior successo in Europa, nel 2017 è stato nominato come la persona più potente dell’intera industria musicale dalla rivista Billboard.

 

Come tutti i ceo tecnologici che si rispettino, anche Daniel Ek ha una biografia pubblica ben ingegnerizzata, ricca di aneddoti che conducono a una traiettoria di genialità precoce, ostacoli apparentemente insormontabili, sacrificio personale e tenacità imprenditoriale, in un crescendo che porta con soddisfazione alla fama e al successo finali. La biografia di Ek comincia a Ragsced, un sobborgo di Stoccolma. Figlio di un meccanico che da qualche tempo aveva trovato lavoro come programmatore informatico e di una baby sitter molto amante della musica (il nonno era un cantante d’opera), Daniel Ek ricevette la sua prima chitarra a quattro anni, e poco dopo il suo primo computer – questo aneddoto, molto citato in tutti gli articoli di giornale su Ek, è importante perché fin dagli inizi il lettore capisce quali sono le due passioni principali del ragazzo. Come avrebbe raccontato lui stesso in un’intervista a Sarah Lacy del sito Pando (e in decine di altre), già a 14 anni Ek era un programmatore piuttosto dotato: era la fine degli anni Novanta, tutti volevano una pagina web e lui cominciò a progettarle e a venderle, dapprima a 100 dollari l’una, poi a prezzi sempre più alti man mano che le richieste aumentavano, fino a cinquemila dollari. Gli affari andavano così bene che Ek organizzò un piccolo business scolastico. Insegnò ai suoi compagni di classe più dotati a programmare e a usare Photoshop per la grafica dei siti, e li pagava non in denaro, ma in oggetti: videogiochi, iPod, cellulari. E siccome il business non gli lasciava il tempo per nient’altro, con lo stesso metodo Ek pagò altri compagni affinché facessero i compiti e gli esami scolastici al posto suo. I suoi genitori si insospettirono quando cominciarono a vedere televisori, computer e altri oggetti costosi in giro per casa, ma alla fine capirono che lo spirito imprenditoriale di Ek era indomabile, e si adattarono. Ek li convinse perfino a trasferirsi in una nuova casa, così lui poté usare l’abitazione di famiglia come ufficio e laboratorio. A 18 anni, gestiva un team di 25 persone. Finita la scuola, Ek cominciò ad avviare diverse attività imprenditoriali, come una compagnia di Seo (cioè dell’arte di farsi trovare su Google) e di marketing online chiamata Advertigo. Cercò anche di farsi assumere a Google, ma non ci riuscì perché non aveva una laurea. Nel 2005, grazie a un rinnovato interesse degli investitori internazionali per la scena tecnologica europea e in parte a causa di qualche problema con il fisco svedese, Ek vendette tutte le sue imprese, tra cui Advertigo, che fu comprata dall’azienda di marketing digitale TradeDouble. Ek fece un paio di milioni di dollari, aveva 22 anni e decise di andare in pensione. Comprò un grande appartamento nel centro di Stoccolma, una Ferrari rossa e per qualche mese frequentò “i party più fighi” dove poteva avere tutte le ragazze che desiderava, come ha detto lui stesso in un’intervista al Financial Times. Cadde in depressione.

 

Questo è il momento di flessione della storia. Ek vendette l’appartamento e la Ferrari e si ritirò in una casetta nel suo vecchio quartiere, vicino all’abitazione dei genitori, per meditare sul futuro. “Cominciai a pensare a cosa mi importava davvero, e capii che c’erano due cose nella mia vita che sono sempre state davvero importanti, la musica e la tecnologia”, ha detto a Pando.

Era il 2006 ed era il momento giusto per pensare a musica e tecnologia. Il mercato musicale era infatti in subbuglio: Napster, il programma per scaricare musica illegalmente, era stato fondato pochi anni prima, nel 1999, e in poco tempo aveva distrutto l’industria discografica. Il mondo aveva scoperto la pirateria, aveva capito che non era più necessario pagare per poter ascoltare la musica, e non fu più possibile tornare indietro. Le case discografiche andarono in crisi una dopo l’altra. Nel 2001 Steve Jobs di Apple presentò iTunes, un nuovo servizio per comprare musica digitale: inizialmente diede qualche speranza, ma poi le cose ripresero a peggiorare. ITunes consentiva infatti di comprare le canzoni singolarmente, eliminando la principale fonte di guadagno delle case discografiche e degli artisti: la vendita di album. Nel 2006, mentre Ek meditava nella sua casetta, l’industria discografica con un colpo di coda aveva fatto chiudere Napster, ma le cose non erano migliorate: arrivarono decine di cloni, come Kazaa e Limewire, che continuarono a devastare il mercato.

In quel periodo Ek ebbe un incontro importante con Martin Lorentzon, il fondatore di TradeDouble, l’azienda che aveva comprato Advertigo: durante la trattativa d’acquisto, i due erano diventati amici. Lorentzon aveva venduto TradeDouble e si trovava nella stessa situazione di Ek: ricchissimo, annoiato e alla ricerca di un nuovo progetto. Parlando, i due continuavano a tornare sull’industria musicale e dopo molto meditare decisero che avrebbero provato a creare il nuovo Napster, ma migliore, in streaming e legale. Incontrarono Ludvig Strigeus, un programmatore di talento che aveva creato uTorrent, che in quel momento era uno dei programmi più famosi per scaricare illegalmente musica e video. I tre cominciarono a lavorare a Spotify, e nel frattempo Ek divenne per qualche mese ceo di uTorrent (poi lasciò perdere: non è il massimo pretendere di salvare l’industria discografica se si è a capo di un prodotto usato dai pirati).

La creazione di Spotify, dal punto di vista tecnico, fu complicata ma non impossibile. Ek capì che uno dei modi migliori per convincere gli utenti a usare Spotify sarebbe stato un’esperienza utente rapida e senza “frizioni”, come si dice nell’ambiente, e chiese a Strigeus di fare in modo che, dopo aver cliccato su una canzone, la musica partisse nel giro di duecento millisecondi, che è più o meno la durata di un battito di ciglia. Nel giro di quattro mesi il primo prototipo di Spotify era pronto. Il vero problema fu piuttosto convincere le case discografiche a concedere i diritti per trasmettere legalmente la musica in streaming. L’industria discografica in quel periodo era traumatizzata: stava attraversando una crisi feroce e praticamente senza vie d’uscita, e quando Ek arrivò con l’idea di un sito internet che consentiva di ascoltare musica online, senza limiti e in alcuni casi anche gratuitamente (a patto di sopportare un po’ di pubblicità), non fu esattamente accolto a braccia aperte. Ma trovarsi a Stoccolma e non a San Francisco, per una volta, fu molto utile. La Svezia fu uno dei primi paesi del mondo ad avere internet a banda larga: scaricare una canzone illegalmente era facile e rapido, e questo significa che la pirateria era fortissima e le case discografiche disperate e pronte a a dare ascolto a chiunque portasse loro un po’ di speranza. Inoltre il mercato della musica svedese è piccolo e poco influente: tentare un esperimento lì sarebbe stato meno disastroso in caso di fallimento. Nonostante questo, a Ek servirono due anni per convincere le principali case discografiche a concedergli i diritti per lo streaming in Svezia e in alcuni paesi europei, e per tenere in piedi Spotify lui e Lorentzon furono costretti a usare gran parte delle proprie fortune personali.

Quando finalmente Spotify uscì sul mercato europeo, nel 2008, con 20 milioni di canzoni, fu un successo piuttosto rapido. L’industria discografica svedese cominciò a riprendersi grazie ai proventi dello streaming, e Spotify ottenne finanziamenti da vari investitori. Attirò l’attenzione anche di imprenditori famosi, come Sean Parker, il fondatore di Napster, che dopo essere stato il mentore di Mark Zuckerberg decise di aiutare Ek a entrare nel mercato statunitense, il più importante del mondo. Ek era convinto che, poiché aveva già contrattato con la versione europea delle major discografiche, sarebbe stato facile estendere il contratto anche agli Stati Uniti. In gran parte le aziende principali erano le stesse: Emi, Sony, Warner e Universal. Si sbagliava: furono necessari altri due anni e mezzo per ottenere i diritti per il mercato americano, in cui Spotify entrò nel 2011. Fu un successo anche lì.

Quello che è successo dopo è più o meno storia recente. Spotify è attiva in oltre 80 paesi e tutti ritengono – a ragione – che abbia salvato l’industria discografica, i cui bilanci sono tornati più floridi di com’erano prima della pirateria. Lo streaming è diventato di gran lunga il metodo principale di ascolto della musica in tutto il mondo. Non tutti però sono sicuri che Spotify, oltre che l’industria discografica, abbia salvato anche la musica. Il sistema di distribuzione dei ricavi è piuttosto sfavorevole per gli artisti, soprattutto quelli emergenti. Molti esponenti importanti del mondo musicale considerano dannoso il modello Spotify, che ha consentito ad aziende digitali e case discografiche di stringere un’alleanza economica che spesso va a discapito dei musicisti.
 Thom Yorke, il celebre cantante della band Radiohead, molto amata da Ek, disse nel 2013 che Spotify era “l’ultima disperata scoreggia di un corpo morente”. Ma nonostante le proteste, il modello Spotify ha vinto. Non soltanto è enormemente diffuso, ma è stato anche adottato dalla concorrenza: oggi Apple, Amazon, e numerosissime altre aziende hanno i propri servizi di streaming musicale, a dimostrazione del fatto che il business funziona. Nel 2018 Spotify si è quotata in Borsa, e oggi vale circa 50 miliardi di dollari. Ek, nel frattempo, ha rivoluzionato e salvato l’industria, e già che c’era è diventato il più grande campione tecnologico europeo. Continua a lavorare in Svezia, ma ha comprato casa anche a New York, e ha uffici in tutto il mondo. Se da milionario ventenne si era comprato una Ferrari, da miliardario ultratrentenne comprarsi una squadra di calcio è quasi un passo logico.
 

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.