Pittore arabo, Cappella Palatina a Palermo (Wikipedia) 

La prima rivoluzione femminile in Europa? In Sicilia, otto secoli fa

Franco Lo Piparo

Scandali, desiderio e culture a confronto nel libro di Ibn Jubayr, che approda nella Sicilia del XIII secolo in seguito a un naufragio

Recentemente è stato pubblicato un piccolo libro a cui non si è prestata l’attenzione che merita. Il libro risale agli ultimi anni del XII secolo e parla di noi, dei problemi che dobbiamo affrontare venendo a contatto con culture molto diverse dalle nostre. L’autore è un musulmano colto, Ibn Jubayr, che durante il viaggio di ritorno da un pellegrinaggio alla Mecca approda in Sicilia in seguito a un naufragio (Viaggio in Sicilia, Adelphi 2022). Il fatto che sto per raccontare accade tra la fine del 1184 e l’inizio del 1185 ed è annotato nel diario del naufrago.

  
Messina, la prima città siciliana che visita, appare al diarista “avvolta nelle tenebre della miscredenza, (…) gremita di adoratori della croce”. A causa di questa miscredenza generalizzata vi accadono fatti scandalosi che mettono a dura prova le persone di sana religiosità islamica: “Vi è che se un padre per caso si adira con il figlio o con la moglie, o la madre con la figlia, chi è incorso nella collera dei genitori è spinto dall’orgoglio a precipitarsi in una chiesa, e lì si fa cristiano e si battezza, e il padre non ha più modo di riavere il figlio, né la madre la figlia. Immaginati lo stato d’animo di costoro messi a così dura prova!”.

    
A Trapani, quando i superstiti del naufragio stanno per imbarcarsi per il ritorno in patria, accade un fatto che l’intellettuale musulmano annota con molti particolari. Una parafrasi impoverirebbe l’episodio e preferisco lasciare la parola all’autore: “Uno dei notabili di questa città mandò suo figlio da uno dei nostri compagni di pellegrinaggio per fargli sapere che desiderava offrirgli sua figlia, giovanissima e ancora vergine. Che la prendesse in sposa se era di suo gradimento, o altrimenti la desse in sposa a chi la volesse al suo paese: l’avrebbe portata contenta di separarsi dal padre e dai fratelli, desiderosa com’era di liberarsi dal pericolo di quella tentazione [cristiana], bramosa di raggiungere i paesi dell’islam”. Il religiosissimo musulmano “accettò [l’offerta della vergine] per acquistarsi meriti per la vita futura, e – commenta il diarista – noi lo aiutammo ad approfittare di tale occasione favorevole al bene di questa vita e dell’altra”.

    
Le cronache dei nostri giorni ci costringono a prendere atto che episodi simili accadono ancora oggi nonostante siano passati più di otto secoli da quando scriveva Ibn Jubayr. Qui interessa però notare, per contrasto, la rivoluzione culturale femminile che gli “adoratori della croce” stavano operando in quel periodo in Europa e in quel frammento di Europa che si chiama Sicilia. Per apprezzarla metto a confronto il diario del musulmano Ibn Jubayr con la rappresentazione che della donna fanno i poeti della Scuola poetica che Federico II fonderà da lì a poco.  

 
Leggiamo la poesia di Cielo d’Alcamo. Qui la donna non è proprietà di nessun uomo, è corteggiata e si concede liberamente a suo piacimento. E’ soggetto attivo di desiderio sessuale. 

 
La poesia inizia col mettere in scena le frustrazioni di un uomo innamorato: tràgemi d’este fòcora, se t’este a bolontate; / per te non aio abento [requie] notte e dia, / penzando pur di voi, madonna mia.

 
L’innamorato si appella fin dall’inizio del componimento alla libera volontà della donna: se t’este a bolontate “se questa è la vostra volontà”. Nessuno, compreso il pater familias, può decidere del corpo della donna contro la sua volontà.

 
La risposta della donna è sdegnosa: Se di meve trabàgliati, follia lo ti fa fare. / (…) / avere me non pòteri a esto monno; / avanti li cavelli m’aritonno [piuttosto mi taglio i capelli nel senso di “mi faccio monaca”].

 
L’uomo chiede con insistenza l’appagamento del suo desiderio sessuale: di quaci non mi mòsera se non ai’ de lo frutto, / lo quale stäo ne lo tuo giardino: / disïolo la sera e lo matino. La donna risponde ricordando orgogliosamente di essersi rifiutata di concedere lo frutto del suo giardino a tanti uomini di valore: Di quel frutto non àbero conti, né cabalieri, / molto lo disïarono marchesi e iustizieri, / avere no ‘nde pòttero: giro ‘nde molto feri [se ne andarono molto adirati].

 
Alla fine la donna si lascia sedurre e il lungo corteggiamento si conclude con l’invito della donna (della donna!) a suggellare a letto il patto d’amore: Meo sire, poi iuràstimi, eo tutta quanta incenno [mi arrendo], / sono a la tua presenzia, da voi non mi difenno. / S’eo minespreso àioti [se ti ho disprezzato], merzé [ti chiedo scusa], a voi m’arenno. /A lo letto ne gimo [andiamo] a la bon’ora, / che chissa cosa n’è data in ventura.

 
Questo accade, tra gli “adoratori della croce”, nella Sicilia, europea e non gattopardiana, del XIII secolo. Una vera e propria rivoluzione culturale. L’intellettuale musulmano Ibn Jubayr perché non avrebbe dovuto scandalizzarsi?

 
La storia si ripete.

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