Lo scrittore Giovannino Guareschi (foto LaPresse)

i libri che volano

Da Guareschi alla Fallaci, da Montanelli a Pansa. Scacco matto all'egemonia culturale della sinistra

Pierluigi Battista

I più grandi successi editoriali nel nostro paese portano la firma di autori etichettati “di destra”, senza sfumature

Temutissima, pervasiva, onnipresente, “l’egemonia culturale della sinistra” in Italia. Certo. Però è paradossale che nell’epoca d’oro dell’egemonia culturale della sinistra i libri più venduti siano stati (quasi) sempre di “destra”. O comunque vilipesi ed etichettati come tali, all’ingrosso, senza sfumature. Una iattura per chi è ossessionato dal populismo come eterna perversione del bon ton democratico. O forse no: semplicemente la prova ulteriore che persino attraverso i libri, nel rifugio dorato che dovrebbe custodire la propria inviolabilità dall’assalto dell’accaldata soldataglia populista, si sia manifestato in Italia, nel dopoguerra postfascista, il sintomo permanente di una frattura immedicabile. La separazione tra popolo ed establishment, che pure ci sembra tanto nuova. Il mondo cartaceo diviso in due. Da una parte – da quella dei reietti si intende – le vendite a milioni, la popolarità, il trionfo commerciale. Dall’altra l’editoria raffinata. L’aristocrazia accademica. Le collane di qualità. Le patenti ideologiche erogate con elegante parsimonia e impareggiabile snobismo. L’arroganza della cultura che fa tutt’uno con il sussiego pedagogico.

 

Durante una sessione d’esame dell’università romana uno studente (pare che si trattasse di un rarissimo esemplare di giovane democristiano) venne additato come un provocatore per aver esibito una tesina ricavata da uno dei volumi dalla “Storia d’Italia” di Indro Montanelli, e infilzato dalla pubblica riprovazione del docente togato, incapace di trattenere il suo disappunto per la contaminazione del santuario accademico con un “libercolo dozzinale e fascistoide” (fascistoide, nella retorica delle invettive politiche, è la stessa cosa di fascista, ma collocato su un gradino morale se è possibile ancora più basso). E si racconta che Montanelli, a chi gli riferiva la scenetta che nella sua grossolana paradigmaticità sembrava quasi una parodia dei vezzi spocchiosi della sinistra accademica, se ne fosse uscito con le seguenti parole: “Dite a quello studente coraggioso che sono disposto a risarcirlo con una sia pur minima parte dei miei diritti d’autore, minima ma pur sempre superiore ai proventi editoriali di quel professore semisconosciuto”.

 

Chissà se è vera o se è solo leggenda (si intende la risposta di Montanelli). Ma è un fatto che i libri di storia più venduti nel dopoguerra (scolastici a parte) sono stati quelli di Montanelli, da solo, o con Roberto Gervaso o con Mario Cervi. Libri “di destra” come quelli che hanno sbancato per decenni il botteghino, meta agognata dai tossici delle classifiche schifate da Alberto Arbasino: Giovannino Guareschi, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Oriana Fallaci, Susanna Tamaro, Giampaolo Pansa e altri da aggiungere a piacere. Che poi, “di destra”! In comune hanno ben poco, secondo le categorie classiche della tassonomia politica e persino di quella giornalistico-antropologica (la vasca da bagno di sinistra, la doccia di destra, per capirci).

Ma i libri “di destra” si definiscono così per almeno quattro caratteristiche basilari. Uno: vendono montagne di copie. Due: non sono di sinistra. Tre: sono considerati di serie B dalla sinistra. Quattro: sono ostracizzati dalla sinistra. Sulla storia dell’ostracismo, vero o presunto, si gioca il clou della partita che ancora oggi avvelena con i suoi strascichi di rancori incrociati. E del resto, proprio questa rivendicazione a tratti vittimistica dell’ostracismo è stata sventolata con un certo orgoglio revanscista, con un veemente senso di rivalsa da chi, sulla sommità delle montagne di libri venduti, guardava la palude blasonata inveire contro il popolo (cambiare il popolo se non ti piace, esortava Bertolt Brecht, che però i copiosi diritti di autore se li faceva pagare in marchi dell’odiosa Germania occidentale). Scrisse Montanelli, spavaldamente: “Questo successo, lo sappiamo, indigna parecchia gente: quella interessata al mantenimento del monopolio”. Pensavamo che avremmo avuto migliaia di lettori, beh ci sbagliavamo: “Di queste persone ce ne sono non migliaia, ma centinaia di migliaia”. 

 

Stesso tono con Oriana Fallaci, che fino a “La rabbia e l’orgoglio” (2001) era considerata di sinistra, ma poi diventò una macchina di bestseller sfidando l’islamismo fanatico e terrorista, e da quel momento la sinistra decise che Oriana era di destra, candidata per il prossimo rogo (simbolico). Racconta Oriana Fallaci: “Quando scrissi per il Corriere della sera questo ‘j’accuse’, questa ‘requisitoria’, questo ‘manifesto’, questa ‘poesia’, questa ‘preghiera’, questa ‘canzone’” (tutte definizioni sue) è stato come se le immagini che “avevo imprigionato dentro il cuore e dentro il cervello” avessero cominciato a “sgorgare come una cascata d’acqua” e a “ruzzolare sulla carta come un irrefrenabile pianto” davanti ai resti stuprati delle Torri Gemelle. E il direttore del “Corriere” De Bortoli che andò a New York per convincere Oriana a “rompere il silenzio”, anche lui, racconta lei con rabbia e con orgoglio pure stavolta, fu travolto dall’emozione della parola ritrovata: “Gli mostrai gli appunti convulsi, disordinati, e lui si infiammò come se avesse visto Greta Garbo che, tolti gli occhiali neri, si esibisce alla Scala in licenziosi strip-tease. Come se avesse visto il pubblico già in fila per comprare il giornale, pardon, per accedere alla platea e ai palchi e al loggione”. Attaccatemi, sbranatemi, lapidatemi, bruciatemi come una strega “islamofoba” (che espressione orrenda), ma intanto “il pubblico è già in fila”. Il popolo è con me, furente e pronto a scatenarsi dal loggione. E in effetti è andata così: il popolo le ha tributato un successo corale e appassionato, una richiesta sonora di bis e di tris, mentre negli ambienti di corte il nome di Oriana Fallaci è diventato un tabù (poi certo dopo, molto dopo, si sono messi a correre per recuperare la Fallaci di “prima” del libro maledetto, quella buona e dei nostri, ma sono giochetti sfiatati).

 

Anche Giampaolo Pansa era un ex di sinistra, vezzeggiato e coccolato dalla sinistra: ma com’è bravo Pansa, ma come scrive da dio Pansa, eccetera eccetera. C’era stato addirittura un tempo in cui, nella dinamica tumultuosa di una coppia che si detestava, Pansa era considerato il custode dell’ortodossia mentre Giorgio Bocca era l’eretico, anche un po’ vulnerabile, considerando la sua irriverente storia dell’Italia partigiana e il suo ritratto a tratti irriguardoso di Palmiro Togliatti, fino alle diaboliche tentazioni revisioniste. E quando nell’agosto del ’90 scoppiò il caso “Chi sa parli” sui delitti e sui desaparecidos nel “triangolo rosso” attorno a Reggio Emilia alla fine della guerra, Pansa arrivò a definire Otello Montanari, il partigiano che aveva acceso la miccia della polemica, “il fesso d’oro” colpevole di aver aizzato una nuova ondata di denigrazione antipartigiana. Poi, rovesciando il tavolo, tutto esplose e nel 2003 arrivò il fulmine del “Sangue dei vinti” che racconta la strage di fascisti (ma anche antifascisti non comunisti, preti e proprietari terrieri) uccisi dopo il 25 aprile del 1945. Un libro che ha seguito passo dopo passo le tracce del fu “fesso d’oro” Otello Montanari e che si intitola così in onore di Cesare Pavese e di un suo struggente passaggio de “La casa in collina”: “Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso”. Pansa mostrò il petto al fuoco nemico e si espose temerario ma fiero al corrusco rito dell’ostracismo. Lo scomunicarono. Ogni presentazione del suo libro veniva interrotta da urla e schiamazzi. Si mobilitarono addirittura i centri sociali per non dare spazio alla “provocazione revisionista”. C’era sempre uno dell’Anpi, o un nipote dell’Anpi, o un cugino dell’Anpi che accendeva la mischia. Gli storici di sinistra mostrarono tutta la loro indignazione. Protestarono per un premio assegnato al “Sangue dei vinti”: un attentato alla Costituzione nata dalla Resistenza. Uno storico dell’arte, non proprio un asso nella storiografia tout court come Tomaso Montanari, indossò i panni del novello Zdanov e parlò del Pansa appena morto come di un “falsario”. E intanto le vendite del libro crescevano, montavano, dilagavano, straripavano e Pansa ne scrisse un altro e poi un altro e poi un altro ancora sugli stessi argomenti e ogni volta era una marcia trionfale nelle librerie. 

 

Per la sinistra togata, Pansa era diventato di “destra”. Anche Giuseppe Tomasi di Lampedusa lo fecero diventare di destra, lui che era l’emblema del gentiluomo impolitico. Elio Vittorini bocciò il suo “Gattopardo” come un libro prolisso e “vecchiotto” (proprio così disse, lungimirante e acuto). Il Pci che dettava la linea lo liquidò, come racconta benissimo Francesco Piccolo nel suo “La bella confusione”, come libro “reazionario, antiprogressista” e dunque da stroncare (anche se poi, complice Luchino Visconti, chi dettava la linea dovrà rimangiarsi il mal detto). E intanto con la casa editrice Feltrinelli – molto di sinistra ma molto meno paludata degli editori arcigni che nemmeno volevano pubblicare Nietzsche (di destra?), la Feltrinelli fresca dei clamorosi successi planetari del “Dottor Zivago” di Boris Pasternak (di destra? Macché. Anticomunista? Ovviamente sì) – il romanzo di Tomasi di Lampedusa si avviava a diventare il bestseller che tutti conosciamo, smentendo lo snobismo questo sì antico di Vittorini e delle commissioni culturali del Partito comunista, e vendendo una quantità impressionante di copie. Bella frittata, stavolta della titolatissima “egemonia culturale della sinistra”, che prenderà qualche anno dopo un’ennesima umiliazione con Susanna Tamaro. Sintetizzabile così: nemmeno una menzione favorevole nella bottega alacre delle recensioni e almeno quindici milioni di copie vendute con “Va’ dove ti porta il cuore” nei primi anni Novanta. Poi certo, il Salone del libro del 2014 inserirà il romanzo tra i “150 titoli che hanno fatto la storia letteraria italiana” e anni prima Cristina Comencini ne aveva tratto un film pure illuminato dalla figura splendente di Virna Lisi. Però sulla figura di Susanna Tamaro graverà sempre un destino di solitudine, di estraneità, di lontananza dagli ambienti culturali (“di sinistra”) che sembravano possedere le chiavi della legittimazione, delle carte in regola, dell’appartenenza a un club esclusivo. Un risentimento anche un po’ sbracato verso un’autrice baciata dal successo nelle librerie e che esploderà vendicativo con la potenza di una messa al bando dopo la pubblicazione nel 1997 di “Anima Mundi”. Lo ha raccontato la stessa Tamaro, parlando del suo libro massacrato dalla critica accademica (in primis Cesare Segre) come di un canto per la “tragedia di tanti italiani idealisti che sono andati in Jugoslavia per costruire il comunismo e che, quando Tito si è separato dalla Russia, sono stati ammazzati. E’ stata una tragedia dostoevskijana spaventosa. Ho voluto parlarne nel mio libro e sono diventata di colpo fascista. ‘Fascista’, ma anche ‘evoliana’ (?), ‘reazionaria’, addirittura ‘indulgente con il nazismo’”. Il punto interrogativo su “evoliana” è suo, della Tamaro. Ma le è stato detto anche questo, come ennesima e finale ingiuria. Il mondo culturale spaccato in due, appunto: quello che fa le analisi del sangue alla purezza ideologica di un libro e lo schiaccia nella “destra” e quello che intanto, politicamente “mascariato” come si dice in Sicilia, macina copie con una potenza di fuoco devastante.

 

Per finire con Giovannino Guareschi, che era stato prigioniero in un lager tedesco e passava per un fascista; che era democristiano, artefice di un slogan che avrebbe fatto storia per le elezioni del ’48 (“nella cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no”), ma finì in galera per una controversia giudiziaria che perse con Alcide De Gasperi; che sapeva fare tutto, il disegnatore, il polemista, lo scrittore, il giornalista, l’autore di battute memorabili, ma il suo nome nemmeno compare nelle antologie letterarie accreditate. Il suo nome compare però sulla sommità dei bilanci editoriali con la saga del “Mondo piccolo”, con i personaggi di Peppone e Don Camillo (non ho mai capito perché due miei anziani parenti guareschiani ultrà dicessero sempre “Camillo e Don Peppone”: Freud aiutaci tu), con i film interpretati da Gino Cervi e Fernandel che fecero di Guareschi, dell’uomo che aveva inventato i “trinariciuti” del “Contrordine compagni” e della “Obbedienza cieca, pronta e assoluta”, un personaggio popolare, amato, acquistato, visto.

A Venezia, nel 2008, presentarono la versione restaurata di un film uscito nel ’63, “La rabbia” diviso in due parti, una specie di “visto da sinistra, visto da destra”, di Guareschi e di Pier Paolo Pasolini. Ma con un piccolo dettaglio: mancava le parte di Guareschi, a causa, disse Giuseppe Bertolucci, delle sue posizioni politicamente “insostenibili”. Piccinerie di un altro mondo, piccolino. Il “Mondo piccolo” di Guareschi sonnecchiava invece soddisfatto, contando i soldi guadagnati in una grande carriera, e senza nemmeno il permesso dell’“egemonia culturale della sinistra”.

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