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Un testamento letterario

Nel Sinai di McCarthy, lo scriba dell'Apocalisse occidentale

Giulio Meotti

Gli eroi del grande scrittore americano sono tutti assillati dal perdono, dalla verità, dal bene e dal male (e vanno in giro con una Bibbia sottobraccio anche se analfabeti). Viaggio nel suo deserto morale sempre alla ricerca di una possibile salvezza

Nel 1981 apparve un piccolo libro di filosofia, Dopo la virtù. L’autore osservava l’occidente e non vedeva che confusione. Una “nuova èra oscura” si stagliava davanti a noi. Iniziava immaginando il crollo della cultura: “Immaginate che le scienze debbano subire le conseguenze di una catastrofe. Accadono sommosse su vasta scala. Laboratori vengono incendiati, fisici linciati, libri e strumenti distrutti”. Si tenta una ripresa culturale, ma si possiedono solo dei frammenti, “parti di teorie senza legami né con gli altri pezzetti di teoria, mezzi capitoli di libri, singole pagine di articoli, non sempre del tutto leggibili perché stracciate e bruciacchiate”. I bambini imparano a memoria le parti superstiti. Ma i filosofi non riescono più a comprendere di essere affondati in un caos culturale. “L’ipotesi che voglio sostenere è che nel mondo in cui viviamo il linguaggio della morale si trova nel mondo immaginario che ho descritto”. L’autore del libro era un filosofo scozzese che era passato dal marxismo al tomismo, Alasdair MacIntyre.

 

Alcuni anni dopo il libro di MacIntyre, un romanziere irlandese di nome Cormac McCarthy, che quando uscì Dopo la virtù stava lavorando al suo capolavoro (Meridiano di sangue con un sottotitolo spengleriano) entrò nell’ufficio del suo amico Doug Erwin, al Santa Fe Institute, un posto strano pieno di cervelloni che ragionano tutto il giorno su fisica, biologia, collasso, linguistica e buchi neri. McCarthy si avvicinò all’Istituto nel 1981 quando ricevette la cosiddetta “borsa di studio per geni” MacArthur. Volò a Chicago assieme agli altri vincitori, dove evitò la compagnia degli scrittori. “La combriccola di intellettualoidi era vestita di tutto punto, strafatta e pronta a divertirsi”, ricorda. “E’ stato lì che ho cominciato a bazzicare scienziati. Sono più interessanti”.

 

Quel giorno McCarthy chiese a Erwin di parlargli della fine della civiltà, come la vedeva lui. Anni dopo, Erwin si ritroverà fra le mani la bozza de La strada, il libro di McCarthy che racconta il viaggio post apocalittico di un padre e di un figlio. A mettere in prosa la visione, la crisi della metafisica e del concetto di verità di MacIntyre, ci avrebbe pensato McCarthy, scomparso mercoledì a 89 anniCosa accade alla nostra civiltà quando arriva alla fine? Un paio di proiettili nel tamburo sono tutto ciò che resta ai due protagonisti de La strada, un padre e suo figlio, entrambi senza nome, che si dirigono verso sud in cerca di cibo, spinti da un vento  senza nome, scavalcando cataste di morti e reperti del consumismo occidentale. Tutto intorno a loro si spegne lentamente, questione di ore e di giorni, i colori si dissolvono in una scala di grigio, i suoni sono sempre più rari. Se in Non è un paese per vecchi, con quel magnifico diario in corsivo dello sceriffo, avevamo letto che “il male è reale e cammina sulla terra come un uomo qualsiasi”, ne La Strada c’è l’incarnazione materiale di questa sconfortante sentenza. Lo storico inglese Paul Johnson, un altro che ci ha appena lasciato, diceva che se il problema del XX secolo era il totalitarismo, quello del XXI secolo sarà la vita. McCarthy non ha fatto altro che girarci intorno, riuscendo a esporre in forma letteraria ciò che ha detto Joseph Ratzinger. 

 

Il bambino de La strada fa domande: “E’ possibile, è buono, cosa siamo noi?”. Il padre cerca di mantenere viva la memoria di cosa vuol dire “essere un uomo”. La sola speranza si trova nella relazione fra il padre e il figlio. Il bambino vuole che il padre gli confermi che loro sono i “bravi ragazzi”, coloro che “portano il fuoco”, cioè la luce, la speranza, lo spirito, il futuro. Il figlio non ha conosciuto un altro mondo, è nato dopo il disastro e sua madre si è suicidata. Ma se è vero che quel bambino non conosce nient’altro che la disperazione, perché è contrario al cannibalismo? E perché protesta contro il padre che non vuole aiutare gli altri? Da dove viene il suo senso morale? McCarthy racconta il cuore in un mondo distrutto. Potrebbero lasciarsi morire. Ma questa sopravvivenza fisica è  ciò che ci rende umani. Alla fine, nevica. Il bambino alza gli occhi al cielo. Un fiocco di neve si posa sulla sua mano. “E lo vide estinguersi come l’ultima ostia della cristianità”, scrive McCarthy. Scrivere per McCarthy rappresentava un atto di immensa solitudine, una specie di danza con il tempo, un dialogo con la morte (ha investito vent’anni nella realizzazione di Suttree) e una lotta contro l’entropia (“Siamo un po’ a pezzi e ciò che ci minaccia non è la società giusta, ma quella in decomposizione” si legge ne Il passeggero). “Saremo ancora qui fra centomila anni, ma possiamo sempre autodistruggerci”, aveva detto mesi fa lo scrittore in una intervista al fisico Lawrence Krauss.

 

Inizia a scrivere nell’esercito, fra un turno di guardia e l’altro. Non c’è scrittore più ammirato che abbia partecipato meno alla vita letteraria. Un fantasma che, come Ratzinger, si era ritirato dal mondo. Un nome sussurrato insieme a William Faulkner (Faulkner e McCarthy avevano in comune lo stesso editor, il grande Albert Erskine, che ne fiutò il genio quando Cormac era solo uno sfaccendato). McCarthy è stato l’ultimo scrittore veramente “cristiano”, anche se non si sarebbe mai definito tale. Ha messo in letteratura il grido “Elì, Elì, lemà sabactàni”. Alcolizzati, pazzi, pluriomicidi, stupratori, canaglie umane, necrofili, incestuosi, cinici, corrotti, infami, il catalogo di McCarthy è questo. Alla fine di Meridiano di sangue, che secondo Harold Bloom era uno dei romanzi del secolo (lo pensava anche David Foster Wallace, lo scrittore che ha decifrato l’intrattenimento postmoderno che ci sta uccidendo), il protagonista lascia la banda di cacciatori di scalpi e inizia a portarsi dietro una Bibbia, anche se è analfabeta. Dopo che la coppia de La strada trova una dispensa piena di cibo in un rifugio sotterraneo, il ragazzo recita una preghiera che nessuno gli ha insegnato: “Cara gente, grazie per tutto questo cibo… e speriamo che siate al sicuro in paradiso con Dio”. Il paesaggio devastato attraverso il quale viaggiano è simile al deserto morale provocato dal flagello del relativismo di Benedetto XVI.

 

McCarthy aveva scelto El Paso e Santa Fe, disse, perché sono “le ultime ultime autentiche città d’America” e che per lui era una “astrazione”, una idea. E contrariamente a quanto si dice, McCarthy non era un recluso alla Salinger o Pynchon, ma un uomo intensamente privato e pubblicamente riluttante. L’ex moglie Annie ricorda che “venivano a offrirgli duemila dollari per parlare in qualche università e lui rispondeva che ciò che aveva da dire stava tutto sul libro”. “E’ completamente fuori dal sistema letterario”, disse una volta l’amica Amanda Urban. “La sua vita è priva di eventi, non vuole essere una celebrità”. Scriba di un’apocalisse annunciata, McCarthy era straordinario perché nella sua desolazione dark affermava che una concezione del male ne richiede una del bene e una visione tragica una della speranza. “Albergherà, nei bambini futuri, una nostalgia di qualcosa che non sapranno nemmeno nominare?”, si domanda ne Il passeggero, appena pubblicato da Einaudi.

 

Il passeggero e il suo volume di accompagnamento più esile che deve ancora uscire in Italia, Stella Maris, raccontano la storia dei fratelli Bobby e Alicia Western, ebrei del Tennessee perseguitati da tre dilemmi: il senso di colpa per il padre, un fisico del Progetto Manhattan; il loro intenso, sebbene non consumato, desiderio reciproco; e il peso dell’esistenza come agnostici spiritualmente vuoti (Bobby) e malati di mente (Alicia) nell’America moderna. In questo eterno Sessantotto che è la letteratura occidentale, il romanzo da tinello e aborto di Annie Ernaux, McCarthy ci costringe a fare i conti con il nostro Sinai. Come Walker Percy, un altro grande scrittore del Sud americano, l’autore della Sindrome di Thanatos (Feltrinelli) che faceva domande che pochi altri si pongono: “Perché l’uomo si sente così triste nel XX secolo? La cosa che mi affascina è il fatto che gli uomini possono essere benestanti con tutti i loro bisogni soddisfatti, obiettivi raggiunti, eccetera, ma che col passare del tempo la vita gli è quasi insopportabile. Incredibile”.

 

Temendo che il ricordo di Alicia stia svanendo, Bobby fa visita a un’amica della defunta sorella in un ospedale psichiatrico. Sorprendente che l’espressione cristiana più solida nel libro provenga da un matto: “Io di Dio non credo niente. Mi limito a credere in Dio. Kant aveva ragione riguardo alle stelle sopra e alla verità dentro. L’ultima luce che vedrà il non credente non sarà l’offuscarsi del sole. Sarà l’offuscarsi di Dio. Credi che la sua pazienza sia infinita? Io credo che probabilmente siamo arrivati al limite. Credo ci siano forti probabilità che saremo ancora qui per vederlo inumidirsi il pollice e chinarsi a svitare il sole”. Quando la dottoressa Cohen chiede ad Alicia quale pensa sia l’unico dono indispensabile, Alicia risponde senza esitazione: “La fede”. McCarthy, cresciuto cattolico dalla famiglia irlandese-americana, non professava, ma era profondamente religioso. Le terribili contorsioni dell’umanità che incontriamo nei suoi romanzi ci ricordano Flannery O’Connor. Hanno tutti lo stesso buco nel cuore. Da nessuna parte McCarthy dichiara la propria fede (al Wall Street Journal una volta disse che gli piaceva “la visione spirituale della vita”), ma attraverso Bobby e Alicia, il romanziere si oppone alla cultura secolarizzata e scialba del suo tempo. 

 

Un altro suo romanzo, “Il buio fuori”, termina così: “Perché non pregate per riavere i vostri occhi?”. “Credo che sarebbe un peccato. Quei poveri occhi possono solo farvi vedere ciò che accadrebbe comunque. Se un cieco avesse bisogno degli occhi, avrebbe gli occhi”. Anche “Città della pianura” si chiude così: “Tu puoi chiamare a te il mondo che Dio ha creato, nient’altro che quel mondo. E questa tua vita alla quale dai tanta importanza non è opera tua, qualunque sia il nome che decidi di darle”. Oppure in “Oltre il confine”: “Non si può toccare il mondo. Non si può tenerlo in mano perché è fatto solo di respiro”. Scriveva come un angelo sterminatore, McCarthy, come una luce in esilio da una patria superiore. Promeneur solitaire della post-modernità, McCarthy realizzava romanzi che come un guanto ti prendono per non lasciarti più, riserve di pietà che servono a pensare a certi destini e si ha voglia di sbarazzarsene dopo averli letti. Ci ha aperto gli occhi sui lini appena lavati della scienza.

 

Il Passeggero è un testamento di laicità religiosa e tragica. “Nasciamo tutti dotati della facoltà di vedere il miracoloso. Non vederlo è una scelta”. “Versiamo acqua sul bambino e lo battezziamo. Non per fermarlo nel nostro cuore ma per fermarlo con i nostri artigli”. “Ogni cosa sembra dipendere dalla velocità della luce ma nessuno vuole parlare della velocità delle tenebre”. “Per molti anni ha aspettato che Dio gli dicesse cosa ci si aspettava da lui. Cosa doveva fare con la sua vita. Ma Dio non gliel’ha mai detto”. “Pietà è la contrada dell’uomo solo”. “Cosa siamo noi? Dieci percento biologia e novanta percento mormorio notturno”. Violinista di prim’ordine, Alicia ammira Bach, e sa cosa (o chi) ha motivato la musica del grande compositore tedesco. Quando descrive di aver speso la sua eredità per un violino Amati, ricorda di aver pianto quando lo ha suonato per la prima volta. Lo strumento deve aver avuto origine nella mente di Dio, insinua, tanto perfetta è la sua costruzione. La vita eterna è “improbabile”, dice Alicia, ma la “probabilità non è zero”. “Potrebbe anche darsi che alla fine tutti i problemi siano problemi spirituali. La natura spirituale della realtà è stata la principale preoccupazione dell’umanità da sempre e non scomparirà presto. L’idea che tutto sia solo roba non sembra fare per noi”.

 

Robert Coles sul New Yorker lo ha paragonato ai drammaturghi greci e ai moralisti medievali. Un conservatore pessimista (“la civiltà occidentale è andata definitivamente in fumo nelle ciminiere di Dachau”) che aggiunge altre stranezze al suo curriculum di isolato dal demi monde letterario. Nel Passeggero McCarthy critica la visione del mondo freddamente logica di Alicia (che alla fine la porterà all’autodistruzione) attraverso un personaggio che chiama “Thalidomide Kid”. Il nome di The Kid è un farmaco che è stato considerato una cura miracolosa in occidente durante la metà del XX secolo. Voleva eliminare la nausea che accompagna la gravidanza, ma gli scienziati non sono riusciti a scoprire i catastrofici difetti alla nascita che produceva nei neonati. “Auschwitz e Hiroshima sono gli eventi gemelli che suggellarono per sempre il destino dell’occidente”, si legge ne Il passeggero. McCarthy lo aveva già scritto in Sunset Limited: “Le cose in cui credevo non esistono più. E’ sciocco fingere. La civiltà occidentale è andata in fumo nei camini di Dachau, ma ero troppo infatuato per vederlo. Ora lo vedo”. Per usare le parole di George Steiner, McCarthy è “il canto che ci riporta alla casa dell’origine dove non siamo ancora mai stati”. Alicia è ospite in un istituto che porta il nome latino Stella Maris. La Vergine Madre dei marinai. Alla fine del Passeggero, troviamo Bobby in un faro in Spagna, affacciato sul mare protetto dalla stella del mare. “Vivo in un mulino a vento. Accendo candele per i defunti e cerco di imparare a pregare”. “Per cosa preghi?”. “Non prego per niente. Prego soltanto”.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.