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la riflessione

L'egemonia culturale è morta. Oggi vive il qualunquismo mediatico-digitale

Alfonso Berardinelli

Oggi, più che dalla politica, è prodotta dagli automatismi della vita sociale tecnologizzata. Ferrara, Fofi, Ginzburg: un’analisi a più voci nella rivista "Vita e pensiero"

Non se ne parla più da tempo, ma che cos’è (se esiste ancora) un’egemonia culturale? Nell’ultimo numero appena uscito (il 2/2023) la rivista Vita e Pensiero ha chiesto di pronunciarsi in proposito a Giuliano Ferrara, Goffredo Fofi, Lisa Ginzburg e Chiara Valerio, voci piuttosto dissonanti sia nella definizione di egemonia, sia nel modo di contrastare o neutralizzare quei danni che può infliggere a quelle libertà di pensiero e di espressione che le nostre costituzioni dichiarano di difendere.  Gli interrogativi posti dalla rivista sono stati in particolare tre: (1) L’egemonia di sinistra è stata sostituita da una egemonia di destra? (2) E quella di gramsciana memoria è davvero tramontata per sempre? (3) Nell’èra dell’omologazione culturale e della cancel culture, della tecnoscienza e del nichilismo, cosa resta dell’engagement? Non mi sembra che i chiamati a rispondere abbiano molto tenuto conto di questi interrogativi, ma è di per sé interessante il modo in cui hanno a loro volta posto liberamente il problema dell’egemonia partendo dai loro personali punti di vista. 

 

Quanto a precisione definitoria, l’intervento di Giuliano Ferrara è il più lucidamente riassuntivo e analitico a partire dalla sua prima frase: “L’egemonia culturale cosiddetta è finita o si è travestita così bene che non si fa più riconoscere”. In effetti, per quanto elastico possa essere il concetto di egemonia, non c’è dubbio che sia stato del tutto superato nel passaggio dal Novecento al Duemila. Di egemonia era ancora possibile parlare in presenza di classi sociali con una loro identità culturale e un’ontologia socio-economica; fino a quando si trattava di Storia come lotta di classe per il potere statale e sociale. Anche sul piano internazionale dopo il 1945 questo è stato vero nel confronto globale planetario fra Stati Uniti e Unione Sovietica, fra regimi comunisti (cosiddetti) e regimi democratici (cosiddetti). Il successivo “crollo delle ideologie” è sembrato liberatorio, ha fatto cadere molte maschere, ma ha anche impoverito il rapporto dinamico fra cultura e società, idee e politica. Quella che fu l’egemonia politico-culturale, dice Ferrara, “ora si frammenta ed estingue nella conoscenza e informazione digitale, livellante, individualizzante, solitaria e non sempre benigna”. A quello che sembra un “balletto evanescente di marionette” ci si può anche individualmente assuefare, solo che di qualcosa si sente la mancanza: “Le egemonie esistono e prosperano quando c’è contraddizione, sono un modo dell’umanità di dirigersi e di affermarsi come tale, non possono finire nell’omologazione culturale assoluta, nel relativismo senza confini”. Contro l’indifferenza incombente nel nuovo qualunquismo secondo cui una cosa vale l’altra, la passione politica è necessaria: “Considero un dovere dare organicità politica all’intelletto, metterlo al servizio del Principe se non altro per evitare servitù modeste, vacue, basse”. Secondo Ferrara, scommettere intellettualmente su una politica anima la cultura, le dà energia e dinamismo.

 

Diversamente politico, perché parte dagli oppressi e dalla migliore cultura, quella più autenticamente impegnata, è l’intervento di Fofi. Si va dal famoso Congresso del 1935 a Parigi “per la difesa della cultura” a cui partecipò una gran varietà di scrittori antifascisti (comunisti compresi) da Aldous Huxley, Gide e Salvemini a Machado, Malraux, Brecht e Musil, per arrivare alla “nostra epoca di narcisismi” in cui domina una “società dello spettacolo” abitata ormai, più che da intellettuali, da “funzionari della cultura” niente affatto individualisti ma puramente e conformisticamente egocentrici. E qui Fofi richiama l’amata schiera dei persuasi “che non accettano lo stato delle cose”. I nomi sono quelli di Orwell e Camus al primo posto e poi degli italiani alla cui ombra Fofi ricorda di essere cresciuto: Vittorini, Morante, Fortini, Pasolini, Sciascia, don Milani, che “sapevano discutere e criticare e reagire”. Oggi, ancora una volta, si tratta quindi di contrastare il nichilismo “dei consenzienti, degli accettanti” e scegliere di stare con gli oppressi, i migranti, i reietti, i soli, i sofferenti e infine i bambini, “cioè il futuro”. Per essere intellettuali impegnati, secondo Fofi, non c’è bisogno di adesione a partiti e schieramenti politici: bisogna piuttosto evitare i “salottini del potere” e la “cultura-merce”, che è una specie di droga, se non un vero e proprio “oppio dei popoli”. 

 

Il terzo intervento, quello di Lisa Ginzburg, il più sottilmente argomentato e introspettivo, si fonda sulla famosa favola di Andersen in cui solo un innocente bambino osa dire la verità, cioè che il re va in giro nudo perché due impostori gli hanno venduto degli abiti invisibili, cioè inesistenti. Un’ottima parabola sull’egemonia mediatico-digitale e sull’illusionismo pubblicitario che fa credere a tutti che sia vero ciò che non è vero. O meglio: tutti sanno che il falso è falso, ma nessuno osa più dirlo per non rischiare di sembrare stupido e mettere a rischio la propria reputazione di persona al passo con i tempi. Ognuno vuol essere come tutti fingendo di credere come tutti che l’irreale sia reale. Tutti accettano gli impostori che vestono con abiti irreali il potere e la cieca vanità di chi lo detiene. Lisa Ginzburg scommette sulla purezza mentale di quei pochi singoli per i quali dire pubblicamente la semplice verità è ancora un istinto naturale.

 

Non importa quali siano le egemonie, le mode, le idee dominanti, i dogmi sociali ai quali la folla si adegua e ubbidisce. Per sottrarsi al loro potere di suggestione non c’è che la libertà interiore del singolo individuo. E’ il contropotere delle verità impolitiche, cioè dette senza né scopi né paure. Lo disse anche Elsa Morante: “In una folla soggetta a un imbroglio, la presenza anche di uno solo, che non si lascia imbrogliare, può fornire già un primo punto di vantaggio”.

 

Oggi l’egemonia è prodotta più dal funzionamento semiautomatico della vita sociale tecnologizzata e spettacolarizzata, che dallo stato e dagli schieramenti politici in competizione. Gli elettori di destra e di sinistra litigano ancora; ma vivono nello stesso modo, hanno le stesse abitudini e le loro opinioni sono determinate solo in minima parte dalle loro scelte elettorali. Il vero potere sociale è nel mercato e nei consumi, non nello stato e nelle sue leggi. Tutti vogliono benessere e sicurezza, e l’utopia in cui più si crede, cioè l’egemonia culturale dominante, è il desiderio di ottenere tutt’e due le cose il prima possibile e nella maggiore misura possibile. Forse questo ormai è un sogno. Ma è lo sviluppo tecnologico scambiato per unico progresso, non i governi e i partiti, a promettere comodità, velocità, agio e libertà più false che vere. Libertà illusorie industrialmente prodotte come merci.

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