Charles Mengin, via Wikimedia Commons 

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La “Saffo della Belle Époque” e l'urlo delle viole

Cettina Caliò

Il colore simbolo dell’omosessualità femminile lo si deve a lei, Renée Vivien. Una nuova biografia sulla poetessa, scrittrice, traduttrice a cura di Teresa Campi

"Io non cambio, Vergini di Lesbo, / io sono eterna”, così Renée Vivien, nata Pauline Mary Tarn a Londra nel 1877, e morta a Parigi nel 1909. Era detta Saffo 1900 e Musa delle Violette. “Seppellisco, fra le scure violette, / i tuoi occhi, le tue mani, la fronte e le labbra mute, / o tu che dormi fra le scure violette”.

Androgina nella bellezza, elegante nella figura e nel verso, cangiante nello sguardo proteso verso “l’eco dei colori, il riflesso dei suoni”. Un destino urgente, nella vita e nella morte. Aveva una risata bambina che scoppiava all’improvviso. “Poiché nessuno sa cosa sta sorgendo l’alba / portando il futuro grigio nelle sue mani, / tremo al grande giorno, il nostro sogno / Paura domani”. Una simbolista, e uno degli ultimi poeti ad aderire alla corrente del parnassianesimo.

La scrittura è per lei esercizio di disciplina, e un tentativo di dare un nome alle cose che si fanno ombra costante, che ci segue e ci precede. “Già si rasserena in fondo al mio sguardo / l’eterna sera dal sorriso un po’ scialbo”. Oscurata fino agli anni settanta, e considerata oggi una delle voci più alte del simbolismo francese, oltre che pioniera del femminismo. “Dal fondo delle ombre si sente fremere / l’agonia ardente delle rose”. Amica di Colette e di Proust. Ignorata per lungo tempo a causa della sua omosessualità che mai tenne segreta. “Ebbi l’imperdonabile audacia di volere / il sororale amore fatto di bianchezze leggere”. Diceva degli uomini: “Non li amo né li detesto… Rimprovero loro di aver fatto molto male alle donne”.

Scriveva in francese, a lume di candela, poesia e prosa, e si firmò anche con lo pseudonimo Paule Riversdale. “Con me porterò un ricordo di rose … sulle mie palpebre chiuse / le rose e le rose”.

Di recente, l’editore Odoya ha pubblicato una biografia illustrata, “Renée Vivien. La Saffo della Belle Époque”, di Teresa Campi, la studiosa che più di altri ha dedicato il suo tempo a ricostruire la complessa esistenza in chiaroscuro e la multiforme ricchezza espressiva di questa poetessa antica nell’animo e nella nostalgia, traducendo anche le poesie “Cenere e Polvere” edite da Savelli nel 1981, e il romanzo “Donna m’apparve” edito da Lucarini nel 1988, e in ristampa presso Odoya, ispirato dalla passione per “l’amazzone” che “adora le torture che suscitano il sorriso nel suo sguardo ma resta più fredda dei ghiacci eterni che sfidano il sole”, la scrittrice e poeta statunitense Natalie Clifford Barney. “Dove i colori affondano, / dove il pallido mondo svanisce in fondo al sogno”.

Sfacciata e al tempo stesso timida, “soffro di una timidezza eccessiva che m’impedisce di dire una sola parola davanti agli estranei”, la Vivien, di famiglia agiata, padre inglese e madre americana, viaggiò molto fisicamente e attraverso le pagine dei libri. “Il velluto della terra con carezze silenziose”. Imparò il greco per leggere in originale Saffo, e come lei cantò l’amore per le donne che – nel simbolismo dei suoi versi ottocenteschi ma moderni nel contenuto – sono leggiadre, chimeriche e animalesche. “Mormorio, musicale, nelle vene dei fiori”. La sua scrittura rimanda l’immagine di una mitologia femminile, verginale e luciferina insieme, di un femminismo tormentato e passionale, surreale e a tratti grottesco. “Pieno del ricordo di lente contusioni”. 

La sua produzione letteraria – che comprende poesie, prosa, lettere, saggi, traduzioni dal greco – è oggetto di studio e ricerche. L’editore Marco Saya ha pubblicato di recente “L’ardente agonia delle rose”, nella traduzione di Raffaella Fazio.
“La febbre di notti avidamente sognate… / Con una passione sì feroce e al tempo stesso dolce”. Pare fosse una grande seduttrice, la Vivien, amò molto ma l’amore, in qualche modo, le lasciava l’amaro in bocca perché voleva possedere financo l’anima, “non saprò mai lo sguardo dell’anima tua furtiva”, voleva eternarsi nella passione, “in un affanno d’amore, di desideri e paure”.

Fra le sue tempestose relazioni, figura una baronessa della casa dei Rothschild (che definiva la Vivien “un essere incantevole e fiabesco”), e la moglie di un diplomatico turco; ma l’incontro più significativo, sul piano sentimentale e socio-culturale, fu quello con l’espatriata Natalie Clifford-Barney, nel 1899. “Come dimenticare la pesante piega / delle tue belle anche serene / l’avorio della tua carne ove corre / il fremito azzurro delle vene?”.

La Barney – ereditiera americana, scrittrice, nota per le sue avventure femminili che scandalizzavano la società del tempo – tentò invano di insegnare la vita alla Vivien, e di lei disse: “La sua vita è stata un lungo suicidio, da cui ho cercato invano di salvarla, ma non era forse predestinata, visto che tutto, nelle sue mani, diventava Cenere e Polvere”. Una vita più breve di altre, 32 anni, cominciata in estate e finita in inverno. “Ah! tenendo le mani sulle palpebre chiuse / ricordiamo invano la dolcezza che ci sfugge!”. Una vita che da un certo momento in poi si orienta a grani passi verso la morte, una morte che si fa approdo sicuro e rimedio al male di vivere. “Lentamente sei passato dal sonno alla morte, / dalla notte alla tomba e dal sogno al silenzio”.

Tenta il suicidio, si stringe al petto un mazzo di violette, fiore che amava e che aveva il nome del primo grande amore conosciuto in collegio, “e tu passi, o Amata, / nel fremito dell’aria”, prende del laudano e tenta un trapasso dolce e odoroso, “ecco la notte: sto per seppellire i miei morti, / i miei sogni, i miei desideri, i miei dolori, i miei rimorsi, / tutto il passato”, non ci riesce, quella volta la vita decide di restarle addosso. Morirà in seguito, in maniera meno poetica, forse, per una pleurite, aggravata dalle condizioni del suo organismo messo a dura prova dall’anoressia, e (a quanto pare) dagli eccessi di droga e alcol il cui odore, come la Rossella O’Hara di “Via col vento”, tentava di nascondere profumando l’alito con gargarismi di acqua di colonia. 

“Ieri vagavo, solitaria viandante / Un’ansia amara in cuore mi portavo / Mi eri essenziale, o tu, acqua che canta / All’ora delle mani giunte”. Il giorno della morte, un giorno di novembre, la Barney era andata a trovarla con un mazzo di violette, fu ricevuta dal maggiordomo che le disse: “la signora è appena morta”. La sua tomba – nel cimitero monumentale di Passy, a pochi passi dal Trocadero a Parigi – è sempre in fiore. “Tieniti forte e sulla tua fronte piangono violette”. L’epitaffio sono versi da lei stessa composti: “Ecco, in estasi è la mia anima / poich’ella, placata s’addormenta / avendo, per amore della morte / perdonato questo crimine: la Vita”. Si convertì al cattolicesimo prima di morire. “Tienici però a dormire sotto le tue vele”. Nel quartiere Marais, forse il più alla moda e bohème di Parigi, c’è una piazza intitolata a lei. 

“Ah, peso degli anni e dei sogni vissuti! / Qui, gusto in pace l’ora della sconfitta, / giacché la sera pietosa è amica dei vinti”.
Abbiamo di questa poetessa un’immagine restituita dalle opere e dalla biografia, un’immagine in cui, probabilmente, ognuno proietta il proprio immaginario. “Se qualcuno parla di me, senza dubbio mentirà”. Un ricco padre defunto, una sorella e un rapporto conflittuale con la madre che “le curava il corpo ma le affamava lo spirito”, che degenera per questioni economiche, e dalla quale la Vivien si separò non appena maggiorenne per stabilirsi a Parigi, con l’eredità paterna, forse per sfidare la sua sorte.

“Dove piange il piacere, appassito tra i fiori!”. Diceva di essere nata sotto una cattiva stella perché amava la Francia e non era francese, era inglese e non amava l’Inghilterra. Scelse il nome Renée per sottolineare la rinascita e Vivien perché finalmente si sentiva (o così credeva) viva. Nella città delle luci, si tuffò a capofitto nella vita bohemienne della Belle Époque parigina, tra feste e ricevimenti, e visse lussuosamente a ridosso degli Champs-Élysées, al civico 23 di Avenue du Bois de Boulogne, in una casa piena di fiori freschi – “mettetemi intorno la sera bagnata di rose” – e dell’oriente che amava, sfidando il suo tempo, un quarto di secolo dopo Saffo, che la Vivien ricordava con un tempio nel proprio giardino, e lì Marcel Proust beveva il tè e Colette scriveva, e proprio della Vivien scrisse nel testo “Il puro e l’impuro”, dove racconta: “non c’era estremo che non la attraesse. Esile come un giunco, rifiutava il cibo per dedicarsi alla creazione di cocktail micidiali, dalla proibitiva gradazione alcolica”. Fra le poche importanti frequentazioni, figura il suo mentore e amico, il poeta Jean Charles-Brun, che nelle lettere la Vivien chiama Suzanne, e al quale scriveva: “Voi non sapete cosa significhi per me l’angoscia della morte. È come il desiderio di una donna amata”. 

A Parigi diede vita a un salotto letterario di sole donne, una risposta all’Accademia francese che ne escludeva la partecipazione. “Le mie gioie furono semplici”.

La Vivien – notturna e fragile nella sensibilità – ha tentato la vita per vie di fuga, ha provato a colmare il baratro che la separava dal mondo, ad andare oltre “la crudeltà del giorno”, ma le porte delle sue stanze sono sempre rimaste chiuse, fu sempre una certa solitudine crepuscolare a rimanere la sua amica del cuore, “trascorro una vita di solitudine e di esilio”; ha cercato di essere protagonista del suo universo, di sorridere allo spavento che si portava dentro e stordirlo con l’odore dei fiori. “Io ti odio, ma la tua flessuosa bellezza / mi prende e mi affascina e mi attira senza sosta”.

Vestiva di nero, di viola o di bianco, il colore del lutto in Giappone. Pare che da lei provenga la scelta del viola come colore simbolo dell’omosessualità femminile. “Voi per cui scrissi, o belle giovani donne! / Voi che, sole, ho amato”. Donna passionale, di una passione che si fa urlo. “Mentre il singhiozzo di accordo svanisce”. Tagliente ed emancipata, malinconica e ironica, un’anima in perpetua angoscia. “Il mio cuore pieno di spavento”. Viveva, con un disagio sorridente e ribelle, in un tempo non suo e aveva nostalgia di ciò che non era stato. “Mi sono lasciata portare dal vento. E da allora / il mio viso somiglia alla faccia dei morti”.

Nella sintassi della perdita, nell’imprecisione delle forme in penombra, quella penombra che tanto amava, trovava la nitidezza della sua visione. “Disperando di attenuare l’immensa sordità”. Non accettava la società borghese dell’epoca, severa con le donne e indulgente con gli uomini. “Gli insulti bruciavano, come fruste d’ortica / Staccata, infine, me ne sono andata”. Cercava la bellezza nella musica, nella filosofia, nelle parole. Leggeva Dante e Baudelaire, con quest’ultimo ha in comune la perfezione pura del verso, la dannazione e la “terribile moralità”. Ignorata dai contemporanei e messa alla gogna per il suo stile giudicato fuori moda e perché la sua omosessualità e la sua eccentricità erano ritenute inaccettabili, descritta come una perversa dissoluta. “Mi hanno segnata a dito con un gesto stizzito perché il mio sguardo ti cercava teneramente, e vedendoci passare nessuno ha capito che io ti avevo scelta semplicemente. Osserva la vile legge che io trasgredisco e giudica il mio amore, che non conosce il male”. 

Se nelle poesie della Vivien troviamo “la fiamma bianca delle stelle”, le forme dell’amore, “la rovina delle rose”, quell’infinito assoluto che non le è riuscito in vita, “la gioia inaspettata al termine delle solitudini”, nelle sue numerose lettere si trova “la dolcissima pietà che consola dal destino”, la possibilità di riflettere sullo scontro a testa bassa col mondo, un faccia a faccia, forse maldestro, vissuto con passione e trasgressione, con la parola e il silenzio. “Niente è rimasto di me / la mia anima finalmente riposa / abbiate pietà di lei”. 

Posto che ognuno di noi è padrone della propria vita, libero di farne ciò che meglio crede “per calmare il lamento che sale / dal mio stanco cuore, un sogno, un sogno celestiale! / In un angolo di violette”; dei poeti, degli artisti (perfino di chi artista non è) quello che forse più conta è la dimensione universale che la loro opera può assumere. “In me cancellando timori e rimorsi/portando con sé l’incuranza dei morti / Troverò allora sotto folte violette / singhiozzi placati e pene non dette”. Conta il destino che si scorge in ogni volto, conta la traccia che resta, nella misura in cui quella traccia si fa specchio di conoscenza per noi che nel chiaroscuro delle righe ci ritroviamo, perché, come scrive Renée Vivien in una lettera alla fine dell’ottocento, “quando – per un gesto che è sfuggito al loro controllo – rivelano una profondità di significato, allora ci sentiamo attratti da questo abisso di malinconia”.

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