Venere e Marte, di Sandro Botticelli (Wikipedia)

Da Marte nasce Venere

Quando la tragica inevitabilità della guerra serve a preparare la pace

Michele Silenzi

Ernst Jünger di fronte alla spaventosa distruzione di un mondo: al rafforzarsi della tecnica dovrà seguire un identico rafforzamento spirituale. Il racconto di un passaggio d'epoca

In questo tempo di guerra, ha fatto bene Mimesis a rimandare in libreria una nuova edizione di La pace di Ernst Jünger. Scritto in un momento indefinito della Seconda guerra mondiale, probabilmente terminato nel 1944, dedicato al figlio diciottenne caduto quello stesso anno presso Carrara, Jünger sa di trovarsi di fronte al più spaventoso spettacolo di distruzione della storia umana, e appare convinto dell’inevitabilità di quella distruzione nel momento in cui il vecchio abito del mondo si è fatto stretto. Cita il Vangelo di Matteo, “è necessario che avvengano degli scandali, ma guai all’uomo per causa del quale viene lo scandalo”. La doppia potenza di questa frase innerva tutto il testo, razionalmente dilaniato da quello che avverte come il tragico ma necessario compiersi di un’epoca per lasciare spazio alla successiva, “il momento in cui le forme sono liquefatte, pronte per la prossima colata”. 

 

I popoli spingono, più o meno consapevolmente, per una diversa forma di unione planetaria che si realizzerà con la pace in virtù del fatto che, a causa di questa guerra civile mondiale, “un grande tesoro di sacrifici si è accumulato a fondamento della nuova costruzione del mondo”, infatti “la logica della guerra deve compiersi affinché possa manifestarsi la logica superiore dell’alleanza”. Un’epoca in cui il mondo si unirà in un fenomeno che preconizza la nostra globalizzazione (ma che rischia di divenire, come spiegherà successivamente, uno stato mondiale che, come scrive Quirino Principe, “non avendo dinanzi a sé alternative né vie di fuga, diverrebbe un carcere assoluto e perpetuo”, contro cui bisognerà ribellarsi). Ma qui Jünger vede gli stati nazionali che cedono il passo a imperi in cui si dissolvono le vecchie frontiere, in cui i piccoli gruppi potranno vedere rispettata la loro peculiarità nell’orizzonte di un’appartenenza che vada ben oltre l’artificioso limite nazionale rendendo possibile un progetto spirituale che travalica i confini: “Il nuovo processo di costituzione degli imperi sfocia nella sintesi, nell’integrazione”.

 

Il mondo tende a unirsi sotto l’ombrello della tecnica considerata come sapere e volontà formati, e che certo Jünger non ama ma ammira per la terribile potenza. La tecnica che permette di trasmettere informazioni in un istante da un lato all’altro del globo come pure di sorvolarlo tutto in un giorno. Nulla è più estraneo o distante. Ma perché questo nuovo ordine planetario sorga, con il globo come una mela nelle mani dell’uomo, è prima inevitabile che quello stesso globo sia tutto un campo di battaglia: “La crescita di uomini ed energie preme per far saltare la vecchia cornice”. La pace, nuova e più radicale, verrà dopo. Una pace segnata dal lavoro. Il lavoratore, soggetto jüngeriano di quella Mobilitazione Totale scaturita dalle prometeiche forze del capitalismo e della guerra di massa, sarà il lievito di questa unificazione perché è l’unico “già in grado di pensare su scala continentale e i cui concetti e simboli sono comprensibili in tutto il pianeta”. Un lavoratore “nuovo” che si muove nell’orizzonte della pace globale e senza confini, un orizzonte in cui ogni attività umana, anche la più creativa diviene parte del sistema perché quando smette di essere lavoratore il soggetto diviene consumatore, utente della rete, fruitore di informazioni (certo un tipo umano molto distante dall’anarca metafisico auspicato da Jünger, che però è analista oggettivo). 

 

In questo scritto, l’idea di una Europa finalmente unita è un’idea chiara e ricorrente. Dalla sua sorgente spirituale, la medesima che ha scatenato la guerra, deve scaturire anche la forza che faccia da motore della pace ma prima deve liberarsi da ciò che in essa è pietrificato per via della sua lunghissima gloriosa storia che coincide con quella della coscienza occidentale. Jünger spera in un’Europa che possa rafforzarsi dal punto di vista metafisico al rafforzarsi della tecnica, che possegga una cultura in grado di creare una “nuova teologia come scienza prima, come conoscenza delle ragioni più profonde e dell’ordine supremo in base al quale è costituito il mondo”. Egli cerca una conversione che dia nuovo sostegno alla pace, e se non fede almeno devozione perché non potranno essere i meri tecnici a guidare l’uomo.

 

Un’Europa che, attraverso questo passaggio di assimilazione del passato ma anche di sganciamento da esso, sia in grado di essere il luogo attorno a cui organizzare l’ordine nuovo ponendosi in posizione di mediazione tra i due “imperi”, Stati Uniti e Unione sovietica. Un’Europa, ieri come oggi, in cerca ancora di un’identità dopo lo sbriciolarsi della sua eredità spirituale e culturale. Un’identità che non può essere né museale attaccamento al passato né funzionalista ordinamento burocratico. Un’identità ancora impossibile da delineare, ma che possa essere in grado di non affogare nell’indifferenziato della cultura gender, del neosocialismo green, del giustizialismo sociale rischiando di cadere preda, polarmente, di pulsioni letali come quelle di nazionalismi reazionari (che tuttavia stanno lì a segnalare un disagio “metafisico” che non può non essere ascoltato). Un’Europa che magari sia in grado di essere scandalosamente e licenziosamente Venere visto che non può più essere Marte.

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