Roberto Benigni a Sanremo (Lapresse)

Narrazioni distorte

La retorica vacua che ha reso la nostra Carta un mito da esaltare a prescindere

Giovanni Belardelli

No, non è la Costituzione più bella del mondo: lo stesso Piero Calamandrei fu critico severo del testo al quale stava lavorando. Come qualsiasi altra cosa, è un prodotto storico legato al suo tempo nei suoi pregi e nei suoi difetti

Della performance di Benigni sulla Costituzione si è parlato molto, ma generalmente in modo superficiale. C’è chi ha scritto (Marzio Breda sul Corriere della Sera) che la Carta è stata “evocata come meglio non si sarebbe potuto”, chi invece ha criticato l’attore per il modo un po’ furbo con cui ha citato solo la prima parte dell’art.11 sull’Italia che “ripudia la guerra” (ma allora, a proposito di furbizia, andrebbe pure notato che dopo aver menzionato tra i padri costituenti un democristiano, De Gasperi, Benigni ha citato due comunisti ma non il segretario Palmiro Togliatti bensì Concetto Marchesi, illustre latinista ma sconosciuto ai più, e Nilde Iotti). In realtà l’unica cosa veramente significativa della celebrazione dei 75 anni della Costituzione fornita da Benigni sta nella sua modalità vacuamente retorica, nel fatto dunque di confermare come da tempo la nostra Carta sia diventata uno slogan, un totem, un mito, qualcosa da esaltare a prescindere: “La costituzione più bella del mondo”, appunto, secondo una definizione la cui insensatezza è pari alla diffusione (quasi 3 milioni i risultati della ricerca su Google). E tutto questo, l’esaltazione a prescindere, proprio mentre ogni giorno all’opinione pubblica vengono rammentati – certo non con la potenza mediatica del Festival di Sanremo – vari limiti della nostra carta costituzionale: dai rischi per l’unità stessa del paese dopo la riforma del Titolo V alla debolezza congenita del potere del capo del governo, dall’espropriazione del potere legislativo da parte dell’esecutivo attraverso l’uso continuo della decretazione d’urgenza a quell’“esondazione” dell’ordine giudiziario nei campi riservati agli altri poteri dello stato su cui insiste da tempo Sabino Cassese. Non si poteva pretendere da Benigni che affrontasse questioni del genere, ma con la sua rievocazione della Costituzione in chiave mitica ha indirettamente confermato questo doppio binario, questa sorta di disturbo bipolare di cui soffre il nostro discorso pubblico: la Carta andrebbe riformata in vari punti / è un testo sacro e intoccabile.

 

Non è sempre stato così. Durante i lavori della Costituente un giurista illustre come Piero Calamandrei criticò abbastanza severamente il testo al quale si stava lavorando, compresi quegli articoli della prima parte che, più che norme giuridiche, gli parevano “precetti morali, definizioni, velleità, programmi, propositi, magari manifesti elettorali, magari sermoni”. Nella redazione finale la Costituzione fu il migliore compromesso possibile tra le forze politiche del paese (Togliatti, ad esempio, avrebbe voluto che all’art. 1 si definisse l’Italia una “Repubblica democratica di lavoratori”, con un segno di classe che la redazione poi approvata – “fondata sul lavoro” – per fortuna non ha). Ma appunto fu un prodotto storico, legato al suo tempo nei suoi pregi e nei suoi difetti; pregi e difetti essi stessi destinati a modificarsi nel tempo. Si prenda la critica che allora formulò un costituzionalista come Giuseppe Maranini, vedendo nella Carta i fondamenti di un regime, più che parlamentare,  “pseudo-parlamentare, cioè partitocratico; nel quale il potere legislativo […] prevale e domina su quello esecutivo”. Oggi la prevalenza del legislativo appare inesistente e, quanto alla partitocrazia (termine che fu proprio Maranini a coniare), è molto mutata in un’epoca che vede la crisi dei partiti.

 

Ma della storicità del testo costituzionale abbiamo perso memoria da tempo, a favore di una mitizzazione che iniziò già alla fine degli anni ‘40 quando le sinistre cominciarono ad agitare, contro l’egemonia politica democristiana, due accuse tra loro collegate: quella del tradimento della Resistenza nelle sue promesse di rinnovamento politico-sociale e quella della mancata attuazione della Costituzione. La Carta non appariva più come un testo che aveva i suoi pregi ma anche qualche punto debole, bensì come una bandiera che doveva essere sottratta alle grinfie dei suoi (presunti) nemici, come un manifesto di valori antifascisti che dovevano essere protetti di fronte al “regime democristiano” (nel 1951 un intellettuale socialista, Lelio Basso, pubblicò un libro intitolato Due totalitarismi: fascismo e Democrazia cristiana). Completata in gran parte l’attuazione della Carta con la creazione delle Regioni, negli anni ‘70 anche l’evocazione della Costituzione come arma nella battaglia politica e la connessa sua mitizzazione vennero meno. E iniziò semmai un periodo nel quale molto si discusse delle modifiche all’organizzazione dei poteri disegnata nella Carta (come è a tutti noto, concludendo poco o nulla).

 

Poi, quasi trent’anni fa, abbiamo assistito a un ritorno della mitizzazione della Costituzione e del suo uso politico. Avvenne quando arrivarono al governo dei partiti – Forza Italia, Lega, Alleanza nazionale – che non discendevano da quelli che avevano scritto la Carta e che si presentavano anche (almeno i primi due) estranei culturalmente e verrebbe da dire antropologicamente all’impianto ideologico solidaristico che ispirava quel testo. Di qui la tentazione fortissima, da parte di una sinistra sconfitta nelle urne, di sostenere che i vincitori non avevano diritto a governare perché fuori dal patto fondamentale che regola la nostra democrazia; non furono pochi a formulare, su questa scia, un parallelo tra Berlusconi e Mussolini. Da allora la mitizzazione della Costituzione non è più uscita dal nostro discorso pubblico; e non è escluso che una delle ragioni dello sfarinamento della sinistra e del Pd stia anche nel costante accodarsi all’esaltazione della “costituzione più bella del mondo”.

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