facce dispari

“Contro l'insostenibile pesantezza della volgarità”. Intervista a Marisa Laurito

Francesco Palmieri

"L’arte è una fiamma, una ricerca di perfezione che tanto non ottieni mai ma deve rappresentare un costante obiettivo. È un lavoro". E per il 2023 "ho un desiderio artistico: portare in teatro un testo di grande comicità ma scaturito da una storia vera e drammatica"

Ha festeggiato l’anno scorso mezzo secolo di carriera declinata fra teatro, cinema e tv, però spulciando nel curriculum trovi persino una partecipazione al Festival di Sanremo nel lontano ’89. Versatile come certe dive nostrane del passato – Elvira Donnarumma, Anna Fougez – e non come le correnti scoperte dei talent, Marisa Laurito si è espressa nell’ultimo triennio anche dietro le quinte con la direzione artistica del napoletano Trianon Viviani nel cuore di Forcella, sulle rovine di Neapolis, dove si esibirono l’eponimo drammaturgo stabiese, Vincenzo Scarpetta, Maldacea, Armando Gill, i fratelli De Filippo, Totò e la famiglia Maggio fra i tanti nomi di un vastissimo elenco. Affabile ma “non dolce di sale”, come si dice dalle sue parti, Laurito venendo dalla scuola eduardiana mostra poca indulgenza verso gli scivoloni della contemporaneità.

 

Non rischia, se ne scriviamo, di essere annoverata fra i “laudatores temporis acti”?

Mi dicevo sempre che non avrei mai fatto come i nonni e i miei genitori quando si lamentavano del cambiamento dei tempi, ma i tempi sono cambiati veramente troppo. È una discesa agli inferi. Ha visto la sfuriata di Blanco che manda i fiori all’aria sul palco di Sanremo? È il pessimo esempio dell’arroganza di certi ragazzi di cui forse tra cinque anni nessuno si ricorderà. E l’abito di Chiara Ferragni? Per esprimere un concetto giusto, che noi donne siamo padrone del nostro corpo, non c’è bisogno di ricorrere a un finto nudo di raro cattivo gusto. Per fortuna c’è chi come Fiorello è di tutt’altra pasta, parlando un linguaggio in cui noi, che abbiamo vissuto epoche televisive migliori, ci riconosciamo ancora.

 

È un problema generazionale?

C’è una marea di giovani artisti di grande qualità e ne ho messi tantissimi in cartellone, perché sono professionisti innamorati e ricchi di talento. Ma in generale noto una dequalificazione allucinante per mancanza di disciplina e serietà.

 

Le ragioni?

Tante. L’approssimazione cominciò con l’avvento delle tv private, poi c’è stata la diffusione dei reality show che hanno lasciato credere a chiunque di poter diventare qualcuno, quindi l’uso di internet e dei social: una grandissima innovazione male interpretata. Prima passavamo le ore tra le biblioteche, adesso grazie a Google fruisci subito delle informazioni che ti servono, ma per dimenticarle subito dopo. Studiare è tutt’altra cosa. Mettiamoci infine l’assenza delle famiglie e le condizioni pietose della scuola. Sono contraria alla violenza però uno scapaccione ogni tanto, quando portavi brutti voti a casa, forse non era inutile. Questa, quando si presenta così, è l’immagine di un’Italia che non amo più, dove si pretende tutto e subito. L’arte è un’altra cosa.

   

   

Per esempio?

Senza nulla togliere ai sindacati, che sono stati utili ai lavoratori, nel teatro della mia giovinezza si faticava senza orari. L’arte è una fiamma, una ricerca di perfezione che tanto non ottieni mai ma deve rappresentare un costante obiettivo. È un lavoro. L’attore svolge un lavoro. Il pittore svolge un lavoro. Ho frequentato a lungo Renato Guttuso: la sua giornata era quella di un operaio, cominciava a dipingere al mattino, staccava per pranzo, riprendeva fino a cena… Salvatore Fiume era lo stesso. O ricordo Claudio Mattone, chiuso in casa una giornata intera a cercare le note di un brano.

 

Ha avuto la fortuna di conoscere persone meravigliose.

Non è stato un caso calato dal cielo: sono andata a cercarmele. Ero io che volevo avere a che fare con loro: Eduardo, Proietti, Corbucci, Nanni Loy, Banderas…

 

Pazzaglia, De Crescenzo, Arbore.

Riccardo Pazzaglia scrisse i testi di canzoni indimenticabili per Domenico Modugno, ma se ne vergognava addirittura: voleva essere ricordato per i suoi libri, per gli articoli. De Crescenzo è stato un amico per la pelle, come è Renzo Arbore. Il tratto distintivo? Prima di tutto l’eleganza, la signorilità di gentiluomini che giocano, la trasgressione come frutto di grande cultura.

 

Quali tra i loro insegnamenti rivendica per sé?

L’ironia e l’autoironia. Ma la cosa più importante è il rispetto assoluto per il pubblico. Non bisognerebbe mai tradirlo, bisognerebbe evitare le marchette. Come tutti gli artisti ho attraversato momenti di difficoltà, ma anche quando non avevo soldi ho scelto, rifiutando di partecipare a tanti reality perché sono spettacoli che non amo, incentrati sul carattere delle persone anziché sulle loro qualità artistiche. Ho stretto i denti proseguendo per la mia strada.

 

Vede anche Napoli, come l’Italia, cambiata in peggio?

Purtroppo i tocchi di involgarimento e il trash non mancano, anche se amo perdutamente la mia città. Ma Napoli spesso si salva per il suo senso di ribellione nei confronti dell’autorità, che quando c’è talento produce anche bellezza. La contraddizione forte, direi da sempre, è la coesistenza quotidiana di aspetti straordinari e di quelli orribili. Il poetico e l’orrido.

 

Cosa vorrebbe nel 2023?

Ho un desiderio artistico: portare in teatro un testo di grande comicità ma scaturito da una storia vera e drammatica. Un connubio in stile eduardiano. Ci sono autori bravi e giovani, e sottolineo giovani sennò da quel che ho detto sembro una passatista. Aspetto che arrivino proposte. Lo spero.

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