I due fratelli Čajkovskij, Modest a sinistra e Pëtr a destra (Wikimedia commons) 

vacanza da incubo

Cajkovskij al Festival. Nelle “Lettere da Sanremo” niente amore, troppi turisti e ulivi “insopportabili”

Alberto Mattioli

A Pëtr Il’ic la “città dei fiori” non piace per niente: "Non è possibile fare nessuna passeggiata senza che a ogni passo questi alberi insopportabili e brutti nascondano il panorama"

Ma non gli piace niente! I turisti sono troppo inglesi, gli alberghi troppo cari e soprattutto gli ulivi troppo ulivi. Altro che Baedeker. Queste Lettere da Sanremo di Cajkovskij, pubblicate da Zecchini e molto ben curate da Marina Moretti, sembrano l’epistolario di Giobbe o le quotidiane lamentazioni degli inviati a Sanremo durante il Festival, quando la città diventa la versione italiana del circo Barnum, anche al netto delle polemiche sui due minuti due di Zelensky in video.

Certo, Pëtr Il’ic non arriva esattamente nel suo momento migliore. Il 6 luglio 1877 aveva fatto la scelta più inspiegabile della sua biografia: si era sposato con Antonina Miljukova dopo che lei gli aveva scritto una lettera d’amore, ma in realtà senza conoscerla bene. Il matrimonio di copertura diventò subito una caricatura di matrimonio e Cajkovskij capì subito di aver fatto un errore: “Il problema – spiega Valerij Sokolov nell’introduzione – non era soltanto l’avversione fisiologica, ma il rigetto psicologico nei confronti della moglie”, che oltretutto non gli aveva nemmeno portato la dote promessa. La soluzione fu tipica di Cajkovskij: fuggire. Dall’autunno iniziò a peregrinare per l’Europa; a Sanremo giunse il 31 dicembre 1877 del calendario giuliano, ma nessuno festeggiava perché nel nostro era il 20 dicembre. La località era stata scelta perché Cajkovskij vi sarebbe stato raggiunto dal fratello Modest, che faceva da precettore a un ragazzo sordomuto, Nikolaj Konradi, la cui famiglia pensava che Sanremo fosse salubre, tranquilla e a buon mercato.

 

Ma a Cajkovskij la “città dei fiori”, come la chiama Salvini, non piace per niente. E’ una lagna continua, specie nelle lettere alla mecenate, la ricchissima baronessa Nadezda von Meck, vedova di un magnate ferroviario. L’hotel Victoria è pieno di stranieri, sicché gli tocca una camera piccola, poi i prezzi sono alti e “quando andai in sala da pranzo la table d’hôte stava terminando e mi sfilarono incontro almeno cento eleganti dame e cavalieri, che mi squadrarono da testa a piedi […]. Erano tutti inglesi (ed io in questo momento non li posso soffrire) e, se si alloggia in un hotel come questo, bisogna agghindarsi come loro per la colazione e il pranzo”. Via subito. Con il valletto-amico Alësa, Cajkovskij si trasferisce quindi alla pensione Joly (oggi ufficio del Demanio) dove in previsione dell’arrivo del fratello e del ragazzino affittano “per un prezzo accettabile quattro stanzette, male ammobiliate, ma formanti un appartamentino”.

Per inciso, c’è la foto della stanza, che è molto più grande e molto più ammobiliata (diciamo pure stracarica, il trionfo della frangia e del ninnolo) di qualsiasi odierno loculo per turisti. Tutto bene? Macché. C’è intanto la seccatura dell’invito a partecipare come delegato russo all’Esposizione universale di Parigi del 1878: prima dice di sì, poi dice di no, e sempre con angosce e patemi del tutto sproporzionati. Poi Alësa scopre di essersi preso la sifilide. E infine c’è il problema degli ulivi. Chissà perché, Cajkovskij li detesta: “A Sanremo non è possibile fare nessuna passeggiata senza che a ogni passo questi alberi insopportabili e brutti nascondano il panorama. Qui non c’è alcun point de vue, dovunque ti giri ci sono ulivi, ulivi, ulivi”. Più degli ulivi gli danno fastidio solo quelli che raccolgono le olive: “Qui non c’è il vero bosco, dove si possono nascondere le driadi, le ninfe, i fauni, le lepri, gli uccellini”.

No fauni, no party. Non ci sono belle passeggiate, “i colori sono troppo vivi e anche l’aria contiene elementi irritanti”. Va a fare una gita a Taggia, e si prende il raffreddore con contorno di incubi, per cui sogna che “pranzavo a Mosca in una trattoria con Rossini al quale non riuscivo a spiegare che l’ouverture del Guglielmo Tell non vale niente. Lui non era d’accordo” (e ci credo!). Poi il café chantant è “molto mediocre”, mentre nel Barbiere di Siviglia a teatro (non l’Ariston) c’è una buona primadonna “ma tutto il resto era al di sotto di qualsiasi critica, ma peggio di tutto era il pubblico locale, che grida, fischia, va in bestia!”. Una vacanza da incubo. E pensate se, in più, avesse dovuto sorbirsi Amadeus e gli altri.
 

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