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I naufraghi del bardo

Non solo "La tempesta". Il mare di Shakespeare in tumulto, come il Mediterraneo di oggi

Siegmund Ginzberg

La merce rara della compassione, nel 1600 come nel 2023. E poi la paura, di chi è arrivato in una terra che non conosce e non sa come sarà accolto. Il teatro del drammaturgo, racconta spessissimo naufragi, che ricordano le rotte marine dei nostri giorni

Prima di tutto la compassione, il soffrire per chi soffre. “Oh! Alla vista di quei poveretti che soffrivano, ho sofferto anch’io! […] Fatto a pezzi [uno scafo] che aveva certamente creature in seno. Quelle grida erano altrettanti colpi al cuore! Povere anime, sono periti”. Così la compassionevole Miranda, all’inizio de La tempesta (Atto I, scena 2, versi 5-9). Ha assistito al naufragio da terra. Ha sentito le urla disperate dei marinai. “Pietà di noi! Ci stiamo sfasciando. Addio moglie, addio figli, addio fratello! Si sfascia, si sfascia, si sfascia!” (I, 1, 57-58). 

 

La compassione, il soffrire se qualcun altro soffre, è merce rara ai tempi di Shakespeare. E anche ai tempi nostri. Ora si discute di come impedire gli sbarchi. Di come rendere più difficoltosi i salvataggi in mare. Di come punire le ong che del soccorso hanno fatto un’attività organizzata, c’è chi dice imprenditoriale. Si mette, giustamente, in cattiva luce chi prende soldi con la scusa di aiutare i poveretti, e invece se li mette in valigia. Non una parola, un gesto, un sospiro di compassione per chi si è messo in mare. Non li chiamano Stücke, “pezzi”. Solo “carico residuale” o “carico selettivo”. Se non hanno diritto all’asilo, se sono clandestini o “migranti economici”, solo gente che rischia per avere una vita migliore, meglio farli vomitare per il mare grosso qualche giorno in più. Così imparano e non ci riprovano. Abbiamo un ministro dell’Interno che ha fatto più danni al governo di cui fa parte di tutta l’opposizione messa insieme. Per compiacere i suoi referenti politici, gettare al loro elettorato un po’ di propaganda e faccia truce negli occhi, si è messo contro tutta l’Europa. Inutilmente. Giocandosi una più equa e coordinata distribuzione dei profughi e dei naufraghi. 

 

A scatenare la tempesta, anzi una finta tempesta, è il padre della compassionevole Miranda, Prospero. La sua è una vendetta politica. Era il Duca di Milano, finché è stato proditoriamente spodestato dal fratello. È diventato profugo. “Ma perché non ci uccisero lì per lì?”, gli chiede la figlioletta quando lui si decide a raccontarle la storia. “Ottima domanda […] Non osarono, tanto mi amava il popolo […]. In pochi ci misero in fretta su un’imbarcazione, ci portarono al largo […] dove avevano pronta la carcassa mezzo marcia di una scialuppa, senza vele, sartie, alberi; persino i topi d’istinto l’avevano abbandonata. Ci issarono a bordo di quella, a gridare al mare che ci ruggiva contro, a sospirare ai venti la cui pietà, restituendoci i sospiri, ci dava un’amorosa sofferenza” (I, 2, 141-147). Se la cavano perché, anziché con un arcigno prefetto, un sicofante che deve farsi bello di fronte a chi l’ha nominato, hanno a che fare con un umanissimo napoletano il quale, incaricato della sporca operazione, gli fornisce un po’ di cibo, acqua, biancheria, stoffe e provviste, e persino i libri della sua amata biblioteca, quelli su cui ha appreso le arti magiche.

    
 

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Secondo: la paura. Anzi la doppia paura, paura contro paura. La paura di chi, arrivato in una terra che non conosce, non sa come sarà accolto. E la paura di coloro che vedono arrivare dal mare degli sconosciuti, dei diversi, di cui non sanno se sono amici o nemici, benevoli o ostili, se rappresentano una minaccia al loro modo di vivere o meno. Per lo più dipende da come gliel’hanno raccontata. 

 

“Amici, che terra è questa?” (La Dodicesima notte atto I, scena 2, v. 1), domanda con apprensione Viola, la protagonista, al capitano della nave. Una tempesta li ha sospinti su lidi sconosciuti. “Questa è l’Illiria mia Signora”, le rispondono. Suona rassicurante. Non sono capitati tra selvaggi, feroci nemici, assassini, predoni. Ma rassicurante non lo è affatto. “E che ci faccio io in Illiria, se mio fratello è in Elisio [all’altro mondo]. E se invece non fosse annegato? Che ne pensate voi marinai?”. La tempesta e il naufragio li ha separati. Ma all’angoscia per la perdita dei propri cari se ne aggiunge un’altra: il non sapere dove si è finiti, come si verrà accolti in una terra sconosciuta. Anche le terre più civili e accoglienti “si rivelano selvagge e inospitali ad uno straniero privo di guida e di amici” (Dodicesima notte, III, 3, 9-12). È tremendo non sapere cosa ti aspetta, non sapere se si verrà accolti o respinti, se ti rinchiuderanno in gabbia o ti ributteranno in mare. Ancora più tremendo il sentirsi soli. L’incertezza è quasi peggio del naufragio.                                         . 

 

Che si tratti dell’Adriatico, di un luogo a noi abbastanza familiare, o di un luogo del tutto sconosciuto, non fa differenza. La geografia di Shakespeare è di fantasia, quanto le vicende che narra. In un’altra commedia, il Racconto d’inverno, il naufragio avviene sulla coste della Boemia, che notoriamente non ha affacci sul mare (a meno che non si risalga ai tempi del Sacro Romano impero, quando re di Boemia divenne Giovanni I del Lussemburgo). Non fa differenza neanche in che epoca si svolge la vicenda. La preferenza di Shakespeare è per l’antichità classica. L’allusione ai propri tempi e alla propria Inghilterra è quasi sempre indiretta, o si riferisce a un passato remoto, o addirittura leggendario. Non poteva permettersi di portare troppo il broncio ai propri tempi, e ai potenti suoi contemporanei.

 

Quando deve liberarsi di un peso lo fa saltando in altre epoche, giocando con l’analogia storica, complice la sua conoscenza dei classici, del suo Ovidio delle Metamorfosi, del suo Orazio, del suo Plutarco, di Virgilio, e, soprattutto di Terenzio e Plauto oltre che, ovviamente di Omero, il cantore di tutte le disavventure per mare. Le rotte dei suoi naufragi sono le stesse dei naufragi dei nostri giorni. Non fosse che il percorso dei profughi per mare è in genere l’opposto di quello di oggi. A cercare conforto vanno verso Est, non verso Ovest e il Nord. Così come facevano i miei antenati sefarditi, quando furono espulsi dalla Spagna e furono accolti invece in Turchia. 

 

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Il suo teatro straripa di naufragi. I suoi lavori – ad esclusione di Amleto, del Lear, del Macbeth, dei drammi storici, delle Allegre comari di Windsor e di Misura per misura, che si svolge a Vienna, sono tutti ambientati nel Mediterraneo. Anche solo ad elencare i titoli che ruotano attorno a naufragi non basterebbe questa intera pagina. Le fortune e sfortune dell’umanità sono inevitabilmente affidate al capriccio dei flutti. Il Mercante di Venezia inizia con gli amici di Antonio che attribuiscono la sua tristezza all’avere tante navi in mare, al pericolo costante che corrono le sue mercanzie. Inutilmente lui gli spiega che no, i suoi averi “non sono affidati a una sola stiva, né destinati ad un solo porto”. Ma l’ebreo Shylock, mentre considera se prestare o no a Bassanio tremila ducati garantiti da Antonio, sa bene che il suo futuro garante del debito è affidabile, ma anche che, “tuttavia i suoi beni sono incerti”: “Ha una nave in rotta per Tripoli, un’altra per le Indie. E ho sentito a Rialto che ne ha una terza verso il Messico, e una quarta verso l’Inghilterra, e altri investimenti sparsi per il mondo. Ma le navi non sono che assi, e i marinai non più che uomini. Esistono topi di terra e topi d’acqua, ladri d’acqua e ladri di terra – pirati voglio dire – e poi i pericoli di acque, e venti e scogli” (Il Mercante di Venezia I, 3, 16-26). 

 

L’Inghilterra di Elisabetta I commercia in lungo e in largo per il Mediterraneo. Si scontra con i pirati musulmani, ma la vera lotta mortale è con i cattolicissimi spagnoli. È una tempesta a salvare l’Inghilterra dall’invasione della Invencible Armada. Così come è una tempesta ad affondare, davanti alla Cipro veneziana comandata da Otello, l’“orgoglio musulmano”. È per mare che sono arrivati i Normanni invasori. Per mare arrivano i ricchi e prepotenti banchieri Lombardi che si impadroniscono della City, e poi, a frotte, i profughi olandesi e francesi dalle guerre di religione. Hanno a che fare con il mare, i porti di sbarco e di imbarco alcuni dei versi più commoventi di Shakespeare. 

 

Espellerli? “Mettiamo che vengano allontanati […] Immaginate di vedere questi disgraziati stranieri che si affollano verso la costa e i porti, con i bambini in spalla e i loro poveri bagagli. Mentre voi ve ne state a soddisfare le vostre smanie di sovranità, con le autorità zittite dal vostro berciare, e voi tronfi nella vostra arroganza”. Sono versi potenti, senza tempo, quanto lo è il dipinto ottocentesco di Géricault sulla Zattera della Medusa. Secondo Michelet, su quella zattera alla deriva era abbarbicata tutta la Francia sgomenta del dopo Napoleone. Ai versi di Shakespeare potrebbe essere appesa tutta l’Inghilterra del post Brexit. Il popolo di Londra ce l’aveva con gli stranieri.

 

Per ignoranza, per paura (che gli tolgano il pane di bocca, gli portino via le donne) o anche semplicemente per fastidio, perché parlano e mangiano diversamente. Shakespeare sa bene che c’è chi li aizza, chi sulla xenofobia ci campa e ingrassa. “Cosa avreste ottenuto? Ve lo dico io: avreste mostrato solo come superbia e arroganza possono prevalere e si può distruggere l’ordine. Ma se così succedesse […] altri furfanti, seguendo le loro ubbie, con identiche mani, identiche ragioni e identico diritto, vi spolperebbero, e gli uomini si divorerebbero fra loro come pesci voraci” (Sir Tommaso Moro, Scena 6, versi 82-96). Ci parlano di pogrom, di fughe dalle guerre, di fughe per sfuggire alla miseria, di espulsioni con cui si uccidono le speranze, di donne e bambini costretti a lasciare il loro paese, le loro case, le loro abitudini, o addirittura annegano in mare. 

 

Shakespeare non fa una pelosa distinzione tra profughi dalla violenza e profughi economici. Anzi, li confonde volutamente. Proprio come li ha sempre confusi l’istigazione all’odio. Negli anni ‘90 in Ruanda gli Hutu furono incitati a massacrare i Tutsi perché li percepivano come l’élite privilegiata. I nazionalisti ultrà turchi incitavano al massacro di armeni e greci in quanto stranieri privilegiati. L’odio nazista contro gli ebrei non faceva distinzione tra ebrei “poveri” in fuga dai pogrom e dalla miseria all’Est, ed ebrei ricchi, colti, integrati, quasi più tedeschi dei tedeschi. La rivolta xenofoba nel Sir Tommaso Moro ce l’ha con emigrati benestanti. Il capopopolo Lincoln, un sensale, ricorre all’argomento “Prima gli Inglesi”: “È forse giusto che [tutti questi stranieri] godano di maggiori privilegi di noi nel nostro paese?” (I, 4, 27-28). Quale tremenda ipocrisia è mai accogliere i profughi certificati dalla guerra e dalle persecuzioni, e considerare invece “criminali” gli altri? “Se mi togliete i mezzi per vivere, tanto vale togliermi la vita”, protesta Shylock. 

 

L’argomento principale con cui il Tommaso Moro di Shakespeare convince i rivoltosi è quello del Vangelo: fate agli altri quello che vorreste fosse fatto a voi. Se foste voi i cacciati, “dove andreste? Quale paese vi accoglierebbe? […] Che andiate in Francia o nelle Fiandre, in qualsiasi provincia della Germania, in Spagna o in Portogallo, anzi no, un luogo qualsiasi diverso dall’Inghilterra, vi ritrovereste inevitabilmente stranieri. Vi farebbe piacere trovare una nazione dal carattere così barbaro che, in un’esplosione di odiosa violenza, non vi offrisse dimora sulla terra, affilasse i suoi detestabili coltelli sulle vostre gole, vi cacciasse via come cani […]? Che ne direste se vi trattassero così? Questa è la condizione degli stranieri, this is the strangers’ case, e questa è la vostra barbara disumanità, This is your mountainish inhumanity” (I, 6, 140-154).

 

Il Tommaso Moro, si sa, non fu mai rappresentato. Il manoscritto è tutto cancellazioni e aggiunte, a cominciare dalla precisa indicazione di pugno del censore, proprio all’inizio: “Eliminate completamente l’insurrezione e le sue cause […]”. Quanto al “buon servizio” svolto da Tommaso Moro in qualità di sceriffo di Londra, “solo una breve descrizione, nient’altro, a vostro rischio. Si noti il minaccioso ma chiarissimo “a vostro rischio, at your own perils”. Ne resta un guazzabuglio, senza capo né coda. Anche perché il principale autore della pièce, Anthony Mundy, era un tantino voltagabbana. Iniziata la sua carriera come esule cattolico presso l’English College di Roma papale, divenne poi spia al servizio dell’inquisitore e torturatore di Stato di Elisabetta, Richard Topcliffe, contribuendo a far arrestare e condannare a morte i gesuiti. Elisabetta era caritatevole nei confronti degli esuli protestanti, ma doveva anche tener conto dei malumori. L’ipotesi è che Shakespeare, il più noto autore di teatro all’epoca, sia stato chiamato a contribuire per salvare capra e cavoli. 

 

Ma lui da che parte stava? Chiedersi se Shakespeare era conservatore o progressista, di destra o di sinistra, è un’idiozia. Politics e politician denotano intrigo, astuzia, ma anche prudenza, abilità nel governare, nel convincere. Così come è un’idiozia – irritante molto più per la stupidità che per l’indebita appropriazione – arruolare Dante tra i “conservatori” (il modo in cui ora si autodefinisce la destra, per crollarsi di dosso l’imbarazzante “neo-fascisti”). Esattamente come ridicola, più che stupida, suona l’interpretazione, in auge in epoca fascista, della profezia circa l’avvento dell’Uomo della provvidenza, il “Cinquecento diece e cinque” di Beatrice nel canto XXXII del Purgatorio. DVX in cifre latine. Altro che conservatore! Dante reazionario è il titolo di un prezioso saggio di Edoardo Sanguineti. Chi non sa che si tratta di un sottile paradosso evidentemente non l’ha mai nemmeno sfogliato. Reazionario è certamente un altro grande, Fëdor Dostoevskij. Cosa li distingue allora dagli imbecilli? Sì, certo, il genio. Ma soprattutto un’altra cosa: l’umanità, la simpatia, l’empatia nei confronti degli altri esseri umani, lo sforzo di comprendere le loro paure, le loro debolezze, le loro sofferenze, i torti da loro subiti e anche quelli che hanno inflitto ad altri. 

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