il foglio del weekend

Le belle e le bestie. Gli scatti di Erwin Blumenfeld in mostra a Parigi

Marina Valensise

Prima delle foto per Vogue, il fotografo tedesco aveva immortalato l’orrore della guerra e del nazismo. La nuova esposizione nella capitale francese

Avrà mai saputo Marella Agnelli, all’inizio degli anni Cinquanta, quando era ancora solo una giovane aristocratica a New York assistente di Erwin Blumenfeld, quale atroce destino avesse alle spalle il suo maestro? Chi lo sa. Blumenfeld all’epoca era una star internazionale, un artista all’avanguardia diventato il più famoso fotografo di moda in circolazione. Venerato dalle dame del jet set che sognavano un suo ritratto, corteggiato dalle riviste di moda che rincorrevano le sue copertine, per nulla al mondo sarebbe tornato anche solo col pensiero ai vecchi traumi, alle umiliazioni e agli orrori vissuti prima di approdare in America nell’estate 1941. Ebreo berlinese, straniero a Parigi, aveva vissuto lunghi mesi nei campi di internamento di Vichy. E prima ancora aveva vissuto diciassette anni ad Amsterdam da espatriato, avendo sposato un’olandese, Lena Citroën della famiglia degli industriali dell’auto, cugina di un compagno di scuola, con la quale aveva iniziato a corrispondere da soldato sul fronte delle Ardenne. 

Quelle tribolazioni fatte di stenti e vessazioni, ma anche di sorprese e colpi di fortuna, riaffiorano ora nella mostra parigina al Musée de l’art et de l’histoire du Judaisme, aperta fino al 5 marzo, che ricostruisce i primi dieci anni di carriera di Blumenfeld attraverso 180 fotografie, molte inedite, e una serie di documenti d’archivio notevoli. Nato a Berlino nel 1897 in una famiglia di ebrei assimilati e patrioti, arruolato in Francia come autista d’ambulanza nella Grande guerra, emigrato in Olanda per amore, dopo un tentativo di diserzione Blumenfeld era approdato a Parigi nel 1936, grazie alla figlia del pittore Georges Rouault e aveva vissuto tutte le immonde tappe della transizione che alla vigilia della Seconda guerra mondiale l’avrebbe propulso dall’anonimato all’empireo del fotogiornalismo, per poi fare di lui nel Dopoguerra l’interprete della bellezza americana e del sogno del nuovo mondo libero.

 

E pensare che aveva cominciato a scattare foto quasi per caso, dopo una vita di stenti, tant’è che per assaporare questa mostra bisogna leggere la sua autobiografia, “Einbildungsroman”, scritta alla fine della sua vita e pubblicata dai figli dopo la sua morte nel 1969. E’ il romanzo di un fotografo scrittore, dotato di sguardo fotosensibile, cresciuto leggendo Cervantes e Montaigne, e perciò in grado di rendere tangibile, addirittura tattile, ciò che descrive: case, ambienti, dettagli, personaggi, circostanze. Oltre la tecnica, la presa visiva, la forza dell’immagine, c’è naturalmente la morale che si evince nello scherno riservato alla sua infanzia e adolescenza, nell’ironia con cui ritrae il contesto prussiano in cui si muovono quegli operosi commercianti e imprenditori assatanati dal senso del dovere e dalla disciplina ma promessi al fallimento, e nell’esibizionismo impenitente dell’orfano di padre vessato da una madre invadente sino al punto da insultarne la fidanzata olandese, onde scongiurare l’abbandono del figlio, e denunciare il disertore pur di sabotare il suo progetto di vita. 

 

Esule in Olanda dopo le nozze con l’amata Lena, padre di famiglia con tre figli a carico, imprenditore spiantato e gravato di sensi di colpa, nel 1933 Blumenfeld trova il modo di sottrarsi al suo infausto destino. Dopo anni di espedienti, l’ex venditore nei grandi magazzini, l’ex commesso in una fabbrica di confezioni, mette su “The Fox Leather”, un negozio di borse di pelle nella Kalverstraat di Amsterdam. Gli affari languono però. I clienti mancano, le borse si accumulano in deposito, tanto più che il nostro non ha cuore di staccarsene. Alla fine, pure i pochi generosi amici olandesi gli tagliano le linee di credito. Blumenfeld si consola scrivendo racconti, cercando di legarsi con gli artisti locali, scolando nottetempo pinte di Slappe Cats o di Oude Klare al caffè Winkel. Assediato dai debiti, un bel giorno convince i clienti del negozio a posare per lui davanti a un vecchio apparecchio fotografico a soffietto, modello Bergheil Voigtländer, ripescato nel retrobottega del negozio, dove una porta sbarrata nasconde una camera oscura con tanto di lampada rosso rubino. Così, spinto dalla miseria nera, il commerciante di pellami prossimo alla bancarotta, già erede di un fabbricante di ombrelli fallito, quasi per caso s’improvvisa ritrattista fotografo. Immortalati i suoi rari clienti, inizia a sviluppare le pellicole, passando la notte in piedi per farne delle stampe in high key, da esporre l’indomani nella vetrina del suo negozio. “I pittori falliti diventavano vetrinisti, i vetrinisti falliti diventavano fotografi”, scriverà nelle sue memorie con sardonica autocommiserazione. Che decadenza! Se a New York una foto poteva rendere sino a cento dollari, in Olanda al massimo fruttava dieci fiorini. In più, Blumenfeld non era nemmeno tanto sicuro del suo talento, dopo che certi mandarini delle edizioni Ullstein di Berlino avevano bollato quegli stessi lavori da lui considerati i suoi più riusciti come “spreco completo del materiale, per l’assenza totale di talento, la mancanza di senso, di prospettiva e di avvenire”. 

 

Blumenfeld però non si diede per vinto. Sperimentata la sua inettitudine alla creazione collettiva come fotografo di scena di un film di Jacques Feyder, si riscatta con l’arte del grottesco. La notte del 31 gennaio 1933, avvento di Hitler al potere, realizza un fotomontaggio sovrapponendo un primo piano del neo cancelliere tedesco al teschio di un cadavere. Poi, completamente ubriaco, passa la notte a percorrere i venticinque chilometri che separano Amsterdam da Aerdenhout. Nel 1942, stando sempre al racconto delle sue memorie, privo tuttavia di conferma da parte dei curatori della mostra parigina, quel mostruoso fotomontaggio di Hitler sarebbe stato diffuso in milioni di volantini dalla propaganda americana su tutta la  Germania. 

Il volto dell’orrore, Grauenfresse (1933), è uno dei pezzi forti della mostra parigina dov’è esposto accanto a un altro agghiacciante ritratto di Hitler, col ciuffo patinato in primo piano, lo sguardo mellifluo, la bocca serrata in un ghigno. L’incarnazione del male ha gli occhi cerchiati di rosso, e lacrime di sangue scorrono sulle sue guance. Quattro anni dopo, in vena sempre surrealgrottesca, Blumenfeld crea un nuovo mostro, Il Minotauro o Il dittatore, sovrapponendo una testa di vitello a un busto antico. Mostro mitologico dal corpo umano e dalla testa di toro, è il simbolo della bestialità dell’incipiente nazismo che evoca la figura di Moloch, divinità mediorientale che anticamente veniva onorata col sacrificio dei bambini, immagine dotata dalla tradizione rabbinica medievale di una testa di vitello che ossessiona l’arte occidentale, vedi la Salammbô di Gustave Flaubert, sino alle fantasie antropomorfe di Francis Picabia, che nel 1941-42 dipinge L’Adoration du veau, un olio su tela esposto anch’esso nella mostra parigina, ispirandosi proprio al Minotauro di Blumenfeld.  
Eppure, per quanto potente fosse il suo immaginario e all’avanguardia lo stile dada-futurista, Blumenfeld continuava a patire la miseria. Pieno di debiti, esaurite le risorse Citroën, s’era visto negare la cittadinanza olandese in seguito all’arresto nel 1929 per oltraggio alla morale, a causa di una bretella del costume da bagno che gli era scivolata dalla spalle mentre prendeva il sole sulla spiaggia di Zandvoortbad. Sicché, il giorno in cui gli tagliarono la luce e il gas, dopo aver implorato invano l’aiuto del vescovo di Harlem, decise di dire addio ai canali di Amsterdam per tentare l’avventura parigina.

 

Complice Geneviève Rouault che in viaggio di nozze in Olanda aveva scoperto i suoi ritratti, si trasferì a Parigi. Trovò alloggio all’Hotel Celtic, in rue d’Odessa, in una mansarda al sesto piano (da cui la foto esposta alla mostra, con vista sui tetti scattata dal balcone in ferro battuto) ottenuta  a prezzo di favore, cento franchi al mese, a condizione di lasciarla libera dalle 3 alle 7 del pomeriggio per consentire agli avventori di quell’hotel de passe di consumare i loro traffici erotici. 

La bohème promette bene. Grazie a Rouault, che compare in questa mostra in un ritratto dal volto languido e lo sguardo magnetico, Blumenfeld entra nel giro dell’avanguardia. Immortala Leonor Fini con le sue cosce carnose strizzate in calze a righe orizzontali, e divaricate su una sedia; fotografa le sculture di Aristide Maillol e di Henri Matisse, l’eterea eleganza di Michel Leiris davanti alla scultura dedicata a Gou. Grazie al tedesco Henri Lehmann, antropologo responsabile del neonato Musée de l’Homme al Trocadéro, riproduce le collezioni amerinde e africane, compreso il cranio di cristallo accreditato come scultura azteca e poi risultato un falso. Le sue foto, pubblicate su riviste prestigiose come Arts et Métiers Graphiques, Verve e XXe siècle, obbediscono a una grammatica moderna, inquadrature strette, composizioni audaci, ampio uso della sovrapposizione e della solarizzazione, la tecnica riscoperta da Man Ray, che accendendo la luce durante lo sviluppo provoca una parziale inversione dei valori dell’immagine.

 

Insomma anche Blumenfeld sperimenta. Anche lui contrabbanda l’arte in foto commerciali. Il suo studio in rue Delambre n. 9 diventa presto il punto di raccordo tra arte e pubblicità, il luogo di transito di modelle meravigliose come Lisa Fonssagrives, procacciatori d’affari e grandi esperti. “Catturare la bellezza di una bella è più difficile che rendere bella una donna brutta”, teorizzava il fotografo delle fanciulle di Marie-Laure de Noailles. Un giorno in quel loft confusionario dalle immense vetrate sbarcò pure Cecil Beaton, “il Lord Byron della macchina fotografica, l’enfant gâté di Vogue”, e la vita di Blumbenfeld cambiò. Fu Beaton infatti a presentargli Michel de Brunhoff, l’altro grande dandy franco-tedesco caporedattore di Vogue Paris, il quale sentenziò: “Se solo voi foste nato barone e diventato pederasta, sareste il più grande fotografo del mondo”.  Ma Blumenfeld non si lasciò irretire: “Avevo già capito che il mondo non esiste più”, scriverà nelle sue memorie. 

 

Passa un anno e si decide al grande salto: partire per New York col pretesto dell’Esposizione universale e l’intento di strappare un contratto ben più congruo a Harper’s Bazaar. Siamo nel torrido giugno 1939, e bisogna seguire le sezioni di questa mostra con in mente la sua autobiografia per captare lo sguardo del genio che mette a fuoco l’utopia del Nuovo mondo, le masse umane misurate dai sondaggi, l’umanità-macchina che usa vecchie parole per lanciare nuovi equivoci, come Loving Care per una brillantina, Right per una stilografica, Serutan  (“natures” al contrario) per un lassativo. Ma i giornali impazziscono per le  foto di Blumenfeld e il ritorno a Parigi per le collezioni d’autunno dell’alta moda è più che promettente. Dopo anni di bohème, Blumenfeld può permettersi un bell’appartamento a Saint Germain des prés, in rue de Verneuil. La stipula del contratto d’affitto è rinviata a dopo le vacanze, a condizione che la pace continui. Peccato che il 1° settembre l’esercito di Hitler invada la Polonia, facendo precipitare di nuovo il mondo nella guerra. 

 

In preda allo sconforto, fra un mare di automobili in fuga, Blumenfeld lascia Parigi dopo aver incollato il suo passaporto tedesco sotto la vasca da bagno del suo studio. Deve raggiungere moglie e figli a Vézelay. Ma quando capisce che senza documenti non ha diritto di esistere, torna indietro a rotta di collo, dopo aver comunicato al sindaco di quel piccolo paese di provincia la sua intenzione di arruolarsi come volontario nell’esercito francese. Rientrato a Parigi riesce a seminare i due avanzi di galera con cui aveva diviso il viaggio, a sventare per miracolo un agguato e  l’arresto da parte di un notaio di Auxerre che si finge agente di polizia, ma in realtà ha solo bisogno di posare per una finta foto in costume sulla spiaggia di Deauville, onde darsi un alibi e tradire la moglie impunemente con un’ex modella parigina dello stesso Blumenfeld. E’ l’ultimo capitolo picaresco prima della tragedia che s’apre con la guerra, la sconfitta e l’occupazione tedesca. Blumenfeld, étranger indésirable, finisce nel campo di internamento di Marmagne, e caduta Parigi, in quello tremendo di Loriol nella Drôme e infine in quello ancora più tremendo di Vernet nell’Ariège, finché dopo otto mesi di domicilio coatto ad Agen, ottenuto il visto grazie all’intercessione del console americano sollecitato da un ufficiale gollista, il 10 maggio 1941 non si imbarca da Marsiglia con moglie e figli su una nave diretta in Martinica. La nave farà scalo a Algeri, a Orano, poi però a sorpresa dovrà fare dietrofront per un’epidemia di peste scoppiata bordo. I Blumenfeld saranno costretti a passare altri due mesi di detenzione nel campo di Sidi-el-Ayachi. Di quell’attesa infernale resta traccia nelle foto che riprendono lo sguardo assente di moglie e figli rinchiusi in una baracca per proteggersi dal caldo, nelle foto dei bagni per le donne, in quelle dei figli di 15 e 8 anni in posa fra le rovine nel deserto. Accanto scorrono gli originali delle lettere di Lena col promemoria per il console, e le cartoline che Erwin le spediva da Parigi: “La gente ha perso la testa e raccontano tutti storie idiote.  Regna la calma, ma io trovo tutto estremamente triste e allucinante”. 

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