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sguardi sul reale

Picasso e Chanel a Parigi, quattro mani al servizio della bellezza

Ottavio Di Brizzi

Due mostre a Madrid sul moderno che hanno fatto il '900. La ricerca degli anni tra le due guerre di una forma nel vuoto. Coco associa tessuti di forme e fatture diverse. L'arte del corpo irriducibile e dell'esperimento

Cinquant’anni fa moriva il grande pittore. Due mostre a Madrid hanno raccontato le sue  amicizie: con Coco ma anche con Julio González, il maestro che gli insegnò i segreti della scultura.

 

La modernité, c’est le transitoire, le fugitif…

Andar sin rumbo in spagnolo è come andare a zonzo, senza una meta o disegno, in forma di losanga. Si traduce lasciandosi guidare da coincidenze, da un montaggio di latenze che diventano eloquenti: seguire una filosofia, che è una logica, di prossimità. Non è andare a vuoto, semmai scolpire il vuoto, anche un formidabile dispositivo di attenzione: il filo nascosto dei passi sembra seguire le curve di un rhúmbos – trottola rituale usata dagli antichi greci per generare incantesimi – su una mappa trasparente. Bastano due tagli di stoffa per dare voce a un corpo, due immagini contigue per suggerire una cornice, due pezzi di ferro saldati a evocare un gesto, dar vita a un dialogo.

 

Come un cadeau di senso, ma l’abito di cui parliamo non è ancora lacerato dai chiodi del ferro da stiro di Man Ray (1921): parlando di arte moderna siamo già nel dominio dell’imprevisto, seppure ancora nella dimensione retinica. L’arte vede ciò che non vediamo. Non a caso le sale dei musei diventano palcoscenico per ciò che si rimuove dallo sguardo, e dall’azione politica. Stesso campo delle revisioni del racconto storico (attuale dibattito spagnolo sulla decolonizzazione delle collezioni), sul come strappare e ricucire i contesti culturali (alta costura dunque), rivedere le impaginazioni degli allestimenti e degli archivi, in cui abbattere idoli e icone, sia pure dell’arte moderna.

 

Ma questo è già un detour, siamo e restiamo a Madrid, sul Paseo del Prado e de Recoletos. Dove una coincidenza di anniversari ha ospitato due grandi mostre lungo una stessa direttrice, con tre artisti a passeggio nelle forme del moderno, nella grande avventura della materia tra memoria e immaginazione: gli anni Venti e Trenta del XX secolo, la stagione di Pablo Picasso, di Coco Chanel, di Julio González. Nei giorni passati si è potuto piacevolmente andare in giro tra Madrid e Parigi in un interstizio di tempo lunghissimo – non quello breve delle vite umane –, quello dei viali alberati dello stesso boulevard: “Picasso/Chanel” al museo Thyssen-Bornemisza e “Julio González, Picasso y la desmaterialización de la escultura” alla Fondazione Mapfre. Un campo creato dalla mera cucitura di ricorrenze, le abitudini del tempo e delle agende giornalistiche, degli anni singolari che messi in sequenza e immessi in una trama danno un senso alle storie. 

 

Come il secolo scorso, l’anno nuovo si annuncia picassiano: per i cinquant’anni dalla morte, l’ispanofrancese Comitato Picasso 1973-2023 celebrerà un po’ ovunque “el héroe del siglo XX, un símbolo de la libertad de creación, del compromiso con el arte y con su tiempo” (Ministro de Cultura dixit). Inclusi ovvia revisione sull’onda woke della parabola del “genio allo stesso tempo uomo violento e distruttivo”, t-shirt con “Picasso maltratador” per turisti sospesi tra stupore e performance, convegni sul rapace “sguardo del Minotauro” (“Bajarle la libido a Picasso” il titolo di un seminario di qualche mese fa…). In fondo un colossale malinteso, già una forma di relazione senza comprensione, nell’eterno conflitto tra opera e cornice, abito e monaco.

 

Al cuore del racconto sul boulevard madrileno, spazio liminare tra pittura, scultura e moda, un plot incantevole, quello di una geometria che si fa carne (e viceversa), indagine sul corpo e la sua consistenza in una forma (biologica), una vicenda di resistenza insomma. Quello messo in scena nelle due mostre è un sogno concretissimo, poco surreale e molto analogico (non sfibrante allucinazione fluida tra reale e virtuale come nei nostri tempi egodigitali), di un corpo non rimosso, ma limite e legame fertile con l’altro. La ricerca incessante degli anni tra le due guerre è quella di una forma nel silenzio, di una entità (non identità) in cui consistere: un sogno in tensione tra vuoti e intervalli, in cui risuonano corpi desideranti, differenze.

 

Ogni storia comincia da uno spazio percepito, da una immagine il cui fascino consiste proprio nel suo isolamento, da una condizione di separatezza. Ma se più immagini sono collegate da una relazione di prossimità (e non è questo sempre, la curatela di un allestimento, enzima che attiva un processo?) acquistano un senso, una direzione, finanche un odore, l’aroma del tempo (la rivoluzione delle aldeidi, l’artificiale nuvola talcata di muschio e gelsomino, Chanel 5…), e dunque una profondità. Ogni storia crea un tempo, dimensione di cui le immagini singolari sono prive, ogni incontro anche fortuito di figure crea una relazione, un legame fertile: l’incanto di una piega su un ginocchio, l’enigmatica concentrazione di una donna che si pettina, un bacio solo sfiorato. Il gesto come racconto: tra le relazioni possibili, oltre alla causalità o alla somiglianza, quella più gratificante è infatti quella di contiguità, la relazione di prossimità.

 

Dicevamo di corpi che si fanno geometria, e spazio che si fa disegno. Ogni immagine ne contiene altre, e in fondo cosa vuol dire capire una immagine se non richiamare un calco della sua memoria. Come un abito ricorda la forma di un corpo, evoca una assenza, rende evidente ciò che non ha trama. Siamo dunque in piena stagione cubista, di passioni a due dimensioni, di austerità cromatica, di rigore (non rigor mortis) dei materiali poveri. 

 

Le contingent, la moitié de l’art…

“Chanel est à la mode ce que Picasso est à la peinture”: è Jean Cocteau a presentarli, nella primavera del 1917, alla prima di Parade dei Ballets russes (“Étonne-moi”, l’unica richiesta di Sergej Diaghilev per il libretto) e prima incursione di Picasso nelle arti sceniche. Hanno trent’anni, sono i sovrani dei loro campi artistici, non potrebbe che essere Parigi il luogo d’incontro: per il malagueño gli anni difficili di Montmartre sono lontani, Gabrielle ha portato la Maison Chanel anche a Deauville e Biarritz, e veste una donna pratica ed elegante, che ha bisogno di libertà di movimento, senza i corsetti prebellici della classe sociale.

 

Le prime sale della mostra ospitano opere degli anni in cui Gabrielle frequenta Pablo e la prima moglie Olga Khokhlova (ne disegna il bellissimo abito di nozze del 1918), organizza frequenti cene con Erik Satie, Georges Braque, Raymond Radiguet, Blaise Cendrars, definisce Picasso “principio radioattivo della pittura”, va spesso nel suo atelier “antro d’alchimista”, forse c’è anche qualcosa più dell’ammirazione intorno al 1920. Sono dolci e malinconici i ritratti di Olga dei primi anni di matrimonio, lei rigorosamente in stile chic Chanel, eleganti chiffon di seta o semplici mise da intimità domestica (i pochi abiti di Olga rimasti in mostra, nonostante il secolo di distanza, sono freschissimi, pronti all’uso).

 

“El espiritu Picasso” scuote la scena artistica degli anni Venti, e Chanel ne è protagonista: la bidimensionalità e il linguaggio formale geometrico, la riduzione cromatica del cubismo analitico che porta all’armonia del beige, alla monocromia o bellezza assoluta del bianco e nero che vertebra ogni struttura. Il collage introduce poi un repertorio di materiali imprevisti e austeri, in cui ritagli di giornale dialogano con motivi vegetali, così come in pittura gli smalti Ripolin si combinano a oli e sabbia, legni e corde.

 

Nello stesso spirito Chanel associa tessuti come cotone e maglia di lana a sofisticate pelli di coniglio, castoro o scoiattolo: semplificazione e depurazione, nasce la “povertà incantevole” (Maurice Sachs), il “miserabilismo di lusso” (Paul Poiret). Che dispositivo di attenzione straordinario, il punto di maglia: Chanel lo porta fuori dalla cornice dell’ornamento e della domesticità, trasforma dunque lo sguardo che così abitualmente lo codifica, per reinventarlo in una funzione pratica (in passato dominio quasi esclusivo dell’abito maschile), attribuendogli nobiltà e fascino. Un montaggio di attrazioni, come l’idea stessa della mostra, abiti e opere, in un dialogo di evidenze e colori, senza ovvie didascalie.

 

“Voglio un profumo artificiale, come un vestito”, ordina a Ernest Beaux, profumiere degli zar: in mostra un piccolo altare per il flacone originale di Chanel 5 del 1921 (vetro, carta e cera  6,6 x 4,7 x 1,5) tra opere in cui Picasso usa per la prima volta carta da quotidiano, Le Jour,  Botella sobre una mesa del 1912 (carboncino e giornale di carta) e Botella, taza y periódico del 1913 (carboncino, matita e carta). A differenza delle fragranze dell’epoca dai nomi poetici e ornamentali, il flacone è diafano e cubico, immediato, etichetta con sole tre righe in nero.

 

Nelle sale in successione si celebrano anche altri visionari: il 20 dicembre del 1922 al Théatre de l’Atelier di Montmartre va in scena l’Antigone di Cocteau, in cui Antonin Artaud è Tiresia e Arthur Honegger scrive musica per arpa e oboe, prima collaborazione tra Gabrielle e Pablo. La Grecia del ritorno all’ordine tra scene blu oltremare e colonne doriche dai toni viola e ocra, mascheroni per il coro e scudi decorati come anfore greche; Chanel usa materiali moderni per uno stile arcaico, lana grossa scozzese tra marrone e rosso mattone, Antigone è in veste bianca involta in una clamorosa tunica verdastra, con greche trasversali (la memorabile Génica Athanasiou fotografata da Man Ray).

 

Il successo è eclatante, e due anni più tardi arriva Le Train Bleu, ancora Cocteau tra pantomima, numeri acrobatici e satira, con musiche di Darius Milhaud. Per il telone del sipario Diaghilev volle Dos mujeres corriendo por la playa, le bagnanti di Biarritz dell’ultima estate della Grande guerra erano già gender-bending, con i costumi aderenti senza maniche né gonne. Euforia e leggerezza, tra Ingres e Rousseau: Chanel veste i danzatori con costumini in punto rosa, seta e crepe de Chine, pantaloni da golf in tweed e camicie splendenti, maglioncini a righe intonate con le calze, precisi e fruscianti completi da tennis.

 

Sembra che durante le prove i costumi da bagno si scucissero spesso per i violenti gesti acrobatici, che i ballerini si lamentassero per la scomodità degli abiti, che i pesanti orecchini della protagonista – poi accessorio più in del decennio – le impedissero di sentire la musica. Cocteau: “Chanel ha imposto l’invisibile, la nobiltà del silenzio sul trambusto mondano”. Lo sguardo di Picasso e Chanel si concentra su un corpo irriducibile ed esperimento, un magnifico organismo in movimento. Tutto verte sulla depurazione di una presenza di un corpo che vibra, sfugge, ridefinisce continuamente il proprio limite e perimetro dato: anche nella moda di Gabrielle, la trasgressione estetica non è un artificio costruttivista, ma funzione della flessibilità, del comfort, della naturalezza.

 

Cosa si vede in questa magnifica galleria di capi storici di Coco, di opere di Pablo, di ombre? L’allestimento (l’imbastitura) del Thyssen è molto elegante, fa emergere il legame tra le opere da una semioscurità lattiginosa, con un accostamento non meccanico di opere coetanee o semplicemente irradiate da una stessa frequenza, in cui collage, dipinti, disegni dialogano con abiti e schizzi progettuali.

 

Picasso e Chanel hanno uno sguardo comune, che taglia il reale depurandolo (l’occhio di Un chien andalou verrà dopo, nel 1929), rapace ma al servizio della bellezza (o denuncia) del mondo. Emozione visiva come generatrice di senso, dunque, un’arte e dei corpi che osano una condizione tra il contingente e l’immutabile. Sottrazione e ricomposizione come forme di sovversione, ancoraggio a una natura senza orpelli che è pura esperienza di sé, non situazione narrativa: l’incontro tra i due illumina un pezzo di storia dell’arte moderna (come una lampada illumina solo uno spazio di prossimità) e racconta una visione che seziona e allo stesso tempo esalta la sostanza stessa delle cose, la fertilizza senza pretesa di crearla ex novo.

 

A chi sosteneva che i poeti sono profeti (Pierre Reverdy), Chanel rispondeva di voler essere semplicemente “parte di ciò che sarà”, e Picasso di voler semplicemente “ver para los demás”. La loro è una posizione sul mondo in cui lo sguardo umano è ancora centrale, seppure su un reale molteplice: sguardo che parte dalla memoria e si proietta nell’immaginazione, al servizio di una ricerca di senso che è già nella natura, nelle sue forme.

 

Il gesto artistico e l’emozione visiva sono un invito a considerare le forme del mondo in modo attivo. In Picasso il frammento di giornale suggerisce (come un abito il corpo assente) un campo magnetico, JOU di Jour, di Journal, di Jouer; nella biblioteca di Chanel sono molte le prime edizioni di Guillaume Apollinaire, Calligrammes, Et moi aussi je suis peintre, Le corps et l’esprit... La mostra si chiude su due foto di mani, quelle di Coco (André Kertész nel 1938, in una una matita, l’altra a carezzare delle pieghe bianche di stoffa) e quelle di Picasso (Nick de Morgoli nel 1947, le palme aperte su una pietra di ametista).


…dont l’autre moitié est l’eternel et l’immuable. (C. Baudelaire)

Basta spostarsi di pochi metri e Apollinaire favorisce un altro incontro, quello tra Picasso e Julio González. La collaborazione tra i due spagnoli comincia nel 1928 per la realizzazione di un monumento dedicato al poeta scomparso nel 1918, e segna per convenzione l’atto di nascita dell’astrattismo scultorico nel XX secolo. Quattro anni di lavoro, in cui un Picasso che sa molto di legni e carte ma nulla di ferro e saldature impara tutto da González, si plasma in undici opere firmate insieme: uno dei sodalizi artistici più fertili della storia dell’arte moderna.

 

La mostra è un’altra formidabile sfilata di opere in dialogo, ed è entusiasmante perché la qualità di molte delle oltre 170 opere lo è, così come la cornice, tra la Barcelona modernista in cui si conobbero giovanissimi e la Parigi in cui rimasero amici fino alla morte del catalano nel 1942. La meraviglia dell’esposizione è dettata da un ritmo quasi musicale, un crescendo d’intensità nel rapporto tra i due artisti, un diminuendo di consuetudine del reale nella loro opera: il leitmotiv è quello della materia che sogna la sua trasparenza, l’affrancamento della materia dall’odioso ricatto del significato.

 

Il viaggio comincia dalla fine, nell’antisala campeggia una struggente Cabeza de toro, natura morta che Picasso dedicherà all’amico scomparso: la semplicità geometrica e purezza strutturale del cranio del toro de lidia è un palese omaggio allo sguardo analitico di González, alla leggerezza dei suoi materiali inerti e poveri (mai miserabili), scovati tra macerie e scarti. In un’altra celebre Cabeza de toro (1943), stavolta montaggio di un manubrio e un sellino, “el espiritu González” è  ancora presente: Picasso racconta a Brassaï l’origine dell’opera, intuizione fulminea in uno scasso, pentendosi di non averla lasciata in strada, in attesa di un operaio che in quella testa di toro potesse vedere l’essenza di una bicicletta da ricomporre, e usare, “Hubiera sido extraordinario”.

 

Nelle sale dedicate alla stagione del tardo modernismo catalano, con opere di Isidre Nonell, Joaquín Mir, Pablo Gargallo, va in scena la fioritura delle mode decorative di fine secolo, con la forte implicazione politica di quella generazione, sensibile al prezzo della industrializzazione pagato dalla società catalana. Lontani da un simbolismo estenuato, prediligono un naturalismo e primitivismo che guardano a Gauguin, a Rodin, oltre alla grandezza del Greco: in mostra le opere del periodo blu di Picasso dialogano con la tormentata piccola maternità con cappuccio di González, le umili gitane di Nonell con gli offesi invisibili di Carles Mani (Els degenerats, 1904). Si accede poi alle sale parigine, in cui si assiste quasi in tempo reale alla ricerca in corso.

 

Sovente si considera che González sia arrivato alla smaterializzazione della sua scultura grazie a Picasso, ma la tesi del brillante curatore della mostra (Tomàs Llorens, recentemente scomparso, l’esposizione è un lascito notevole) è che in realtà tra il 1904 e il 1921, pur vivendo già entrambi a Parigi, si fossero persi di vista, e che non furono le opere cubiste del 1912-14 a ispirarlo, semmai quelle del cosiddetto movimento purista del 1918, di Albert Gleizes, Henri Laurens o Juan Gris.

 

La ricerca della trasparenza e dell’armonia visiva è intesa come affrancamento dalla materia e dal motivo tematico: oggetti quotidiani diventano forme pure e dialogano in sala come le nature morte di González e l’abbacinante Jarra blanca di Amadèe Ozenfant. Gesti puri e pieghe nello spazio, lame d’ombra e di metallo che disegnano geometrie naturali sulle pareti, corpi in movimento amanti della luce che li bagna: nelle sale della Fondazione Mapfre va in scena lo spettacolo di una grande lanterna magica che amplifica lo spazio, lo depura e lo abolisce. Della seconda metà degli anni Venti le opere di Jacques Lipschitz e Alberto Giacometti, e dal cubismo dei pieni e dei volumi si passa a un gioco di linee e riflessi, in cui il disegno del vuoto (la escultura del vacío) diventa l’ossessione centrale: una Guitarra del 1924, riduzione a pura superficie sonora, sembra annunciare la più cubista delle sculture di González, El arlequín del 1930: incontro verticale di due piani, tubi ad arco come volti virtuali e fessure come occhi, una forma conica che accoglie un foro d’ombra. 

 

Ma è con la commissione del monumento funerario di Apollinaire che Picasso cerca di dare una risposta alla domanda: “Come dare una forma al nulla?”. Ne Le poète assassiné, alla morte del poeta Cronamantial, l’Uccello del Benin annuncia che creerà una statua in suo onore; al che Tristouse Ballerinette, la fidanzata del defunto gli chiede di che tipo, di marmo, di bronzo? “No, il faut que je lui sculpte une profonde statue en rien, comme la poésie (…) Une statue en rien, en vide, c’est magnifique”. Picasso ha l’idea, l’emozione visiva, ma non sa di scultura, e si ricorda dell’amico Julio, “en cuyas manos los metales se hacían tan dúctiles como la mantequilla”, burro fuso. In mostra  campeggiano i frutti di quegli anni di felicità creativa (“Nunca había estado tan contento”, confesserà anni dopo), Cabeza, Cabeza de mujer, Cabeza de hombre e la celebre Figure: proyecto para un monumento a Guillaume Apollinaire, ora al Centre Pompidou. 

 

Poi, in una posizione privilegiata, epifania di bellezza in un angolo di penombra che la rende commovente, c’è La femme au jardin del 1929 in ferro dipinto di bianco, dal Musée Picasso di Parigi. González ne fece poi una versione in bronzo che Picasso custodì per tutta la vita nel castello di Boisgelup. Su una base triangolare, un viso come prisma e labbra verticali, capelli al vento come lame lucenti, seni e ventre acuminati e sinuosi, foglie di filodendro come elementi anatomici: “lineal y transparente” la definì lo scultore, innamorato di quella sintesi plastica che dava una forma e una presenza al vuoto. Un corpo scolpito nel silenzio.

 

Già negli anni di collaborazione con Picasso, González aveva portato la sua ricerca – sulla purezza del movimento, sulla poetica della sottrazione – anche in altre direzioni, non necessariamente verso una maggiore astrazione.  Era sensibile a forme oniriche, primitive, le maschere lo affascinavano, sia quelle africane e oceaniche, sia quelle della commedia dell’arte (in mostra un magnifico Pulcinella, ridotto a unica lamina di ferro tagliata, torturata, lacerata). Così le magnetiche “cabezas en profundidad”, teste fatte di linee e piani visibili solo con determinate luci e posizioni dello spettatore, con occhi che generano ombre, con il vuoto come mezzo di espressione. Los enamorados II è opera glaciale eppure emozionante, una struttura cilindrica crea un intervallo tra luce e buio con una placca di bronzo che suggerisce due profili sospesi, in un bacio senza tempo.

 

Ma la sala più incantevole è quella dedicata alle metamorfosi di un motivo classico, La toilette di Edgar Degas, impressionista profondamente amato da González: l’eternità del presente in un gesto singolare, puro e gratuito, una donna che si pettina con le braccia alte, le mani dietro la testa. La sequenza di schizzi e disegni di González ha del crescendo musicale come un bolero, una lentezza e solennità silenziosa viene indagata in ogni possibile prospettiva, via via riportata alla sua essenza geometrica.

 

Qui ritroviamo l’ossessione picassiana (e chaneliana) per un corpo in eterno movimento accolto e celebrato in un segno senza tempo, elegante perché gratuito, pieno di sensi perché senza senso. L’allestimento per il capolavoro del 1931 è memorabile: una sala semicircolare usata come cappella devozionale, con gli studi disposti come specchi sulle pareti curve che riflettono su un fuoco centrale, in adorazione di una figura femminile: Mujer peinandose I, con un corpo che è pura suggestione di luce, rivelazione di volume depurato da ogni residuo di materia, figura senza tempo costruita da piani vuoti, linee cieche e curve essenziali, è una delle più singolari opere della scultura in ferro del secolo, e una delle più commoventi. Altri esempi del rapporto tra Picasso e González seguiranno la vicenda artistica fino alla Guerra mondiale, ma è con quel bagliore di luce metallica (come un Deslumbramiento, opera del 1932, stesso motivo), quella movenza gratuita e eppure dolcissima, che si chiude la passeggiata tra latenze, spazi che accolgono altri spazi, tempi tra altri tempi.

 

Per una curiosa coincidenza (o forse no, corrispondenza segreta) anche qui la mostra chiude su due splendidi ritratti che illuminano un intero mondo: un Picasso trionfante e elegantissimo nel 1932 posa accanto alla Mujer en el jardín, e un González discreto e silenzioso, in abiti umili e domestici nel suo studio di Arcueil nel 1937, accanto alla Mujer ante el espejo, come sguardo tutelare di una nuca nuda, di uno spazio che vibra. Di arte che vede ciò che non vediamo.

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