Dora Maar, fu molto più che la musa ispiratrice di Picasso

Cristina Marconi

Non è solo la “donna che piange”. Dai collage giocherelloni alle le foto di moda per Chanel e Schiaparelli, dalle copertine per le riviste femminili ai reportage fotografici. Ora una mostra a Londra le rende omaggio

L’ha incontrata al Café de Flore che faceva un gioco pericoloso con una matita. Poi lei si è ferita – la mina le si è conficcata nel palmo, dicono – e lui le ha preso la mano, gliel’ha tenuta stretta e si è innamorato. A modo suo, da genio sbranatore di donne, da pittore cinquantaquattrenne ormai al vertice della fama e della creatività. Mentre Dora Maar, nata Henriette Theodora Markovitch nel 1907, fotografa dall’occhio impeccabile, colta, emancipata e magnetica, un vulcano di produttività e di idee, è uscita da quel primo contatto con Pablo Picasso in un bar di Saint-Germain trasformata per sempre nella “donna che piange”. E i collage giocherelloni, le foto di moda per Chanel e Schiaparelli e pure le copertine per le riviste femminili – ma prendersi cura del proprio corpo sarà da femminista o da schiava del mercato, visto che nel frattempo, ai tempi, non si poteva neppure votare? – i reportage fotografici dalle strade delle grandi città europee durante la depressione, il fenomenale intuito visivo e le conoscenze tecniche impressionanti sono stati per sempre messi in ombra da quella nomea di musa di Picasso che ora, grazie alla prima grande mostra nel Regno Unito, la Tate Modern cerca di sfatare.

 

Certo, c’era già stata quella al Centre Pompidou di Parigi, ma è qui, davanti al nastro lucente del Tamigi, il pulpito perfetto per parlare a un’anglosfera dove negli ultimi anni si sta prendendo molto sul serio la ricerca di un punto di vista femminile, la narrazione dell’altra faccia della medaglia. E quindi ecco che la strepitosa Dora diventa un’icona perfetta per una mostra che espone molto – 250 lavori, tutti sorprendenti – e racconta straordinariamente poco delle motivazioni profonde della Maar. Passeggiando tra le grandi sale, si rimane sorpresi davanti alla varietà di quello che Dora ha creato: Man Ray, da cui sperava di andare a bottega, la rifiutò dicendo che non c’era nulla che potesse insegnarle. Per dire, Paul Éluard sosteneva che avesse “tutte le immagini tra le mani”.

 

La ragazza in carriera che pur venendo da una famiglia ricca – il padre, di origine croata, era un architetto e lei crebbe a Buenos Aires – si divertiva a fare foto commerciali per mantenere il lavoro più artistico, prima con altri fotografi e poi, dal 1935, aprendo il suo studio in centro a Parigi, era anche una militante politica. Sono anni vertiginosi: passeggiando per le sale, sembra di assistere al lavoro di dieci artisti e invece è solo lei, Dora, a fare tutto, e tutto tra il 1934 e il 1937. E’ realista quando racconta la povertà per le strade, è folle e lunare quando ritaglia immagini e crea dei collage indimenticabili, o mette una mano femminile dentro una conchiglia come un elegantissimo paguro, è sperimentale quando gioca con l’esposizione delle immagini con la sua bellissima compagnia di giro della Parigi dell’entre-deux-guerres, modernista quando fotografa il corpo della statuaria modella ucraina Assia. Una mente fervida, una stella come quella che mette sulle spalle di una splendida modella in quelle sue fantasmagorie sempre un po’ erotiche. Poi arriva Picasso e la prima cosa che fa è ritrarla con un minotauro lubrico addosso. La ama e la brama, si fa fotografare da lei mentre dipinge Guernica, ne fa “l’idea stessa del dolore, il mio, il suo e quello del resto del mondo”, secondo le parole di lei, e per essere certo che quel dolore non cessi non lascia mai davvero la bionda Marie-Thérèse Walter, bionda e solare quanto Dora è ctonia e cupa. La prima, con cui Picasso ebbe Maya, si suicidò, mentre Dora finì in un ospedale psichiatrico dove le fecero l’elettroshock, poi in cura da Jacques Lacan, poi in un isolamento personale, religioso, filosofico che l’accompagnerà fino alla morte, novantenne. Il suicidio, quello, l’ha sempre escluso: la soddisfazione a Pablo non gliela voleva dare. In compenso si è lasciata convincere a tralasciare la fotografia, in cui brillava, a favore della pittura, in cui l’influenza di lui pesa come una museruola. L’eloquenza visiva, quella, la troverà per raccontare di Marie-Thérèse e di quell’incontro che secondo Picasso finì in una eroticissima lotta fisica e che invece Dora raffigura come una “conversazione”, con le due donne sedute. Lei, la mora, è di spalle, con la testa leggermente girata, come per ascoltare quello che Marie-Thérèse ha da dire. Su di loro incombe una luce da tinello, un lampadario piccolo con la lampadina a vista e la luce forte. In “Guernica” ce n’è uno simile: un sole elettrico, Dio, Picasso stesso. “Devi sapere che non ho mai veramente posato per Picasso”, ci tenne a precisare Dora nel 1953. Non solo: “E devo confessare che se avessi commissionato un ritratto, non sarei stata del tutto soddisfatta”.

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