Alla scala

Ritratto di famiglia in un inferno. E anche il loggione osanna Michieletto

Alberto Mattioli

Il regista fa quel che fan tutti, in Salome, da anni: cercare di spiegare perché la ragazzina perversa sia diventata tale. E lo fa con un rigore e una coerenza ineccepibili, una maestria tecnica strepitosa. Le ragioni di un successo

Viva Michieletto!”, strillano dal loggione. Cieli, numi, stelle! Sogno o son desto? Da non credere. Eppure l’approvazione è inequivocabile, alla fine di questa tormentata Salome, già saltata alla Scala per Covid, poi messa in scena per lo streaming con l’orchestra diretta da Chailly in platea e il teatro vuoto a parte noialtri della Kasta e infine al debutto “vero”, sabato. Damiano Michieletto, regista di quelli che in cretinese sono detti “provocatori”, fa di solito lo stesso effetto del drappo rosso davanti al toro per i devoti alla didascalia, altrimenti detti poveroVerdi!, come sibilano da virtuosi dell’indignazione. E invece niente povero Strauss, stavolta (ma va pur detto che sono dolori solo se tocchi il repertorio italiano, che è poi l’unico che conoscano).

 

Michieletto fa qui quel che fan tutti i registi, in Salome, da anni: cercare di spiegare perché la ragazzina perversa sia diventata tale. E allora ricostruisce la storia di una famiglia che dire disfunzionale è poco: il padre di lei è stato ammazzato dallo zio Erode con la complicità di mamma Erodiade, insomma siamo in pieno Amleto. La voce del Battista che tuona giù nella cisterna diventa così quello dello Spettro che ricorda verità spiacevoli a una Salome adolescente con tanto di doppio-bambina, traumatizzata dalle attenzioni poco paterne e molto pedofile del patrigno. Da quel buco nero emerge, oltre a Jochanaan, della sabbia nerastra che sporca l’impeccabile candore minimalchic della reggia e dalla quale sbucheranno anche una bambola di Salome e il teschio del povero papà. Tutto questo ritratto di famiglia in un inferno viene condotto con un rigore e una coerenza ineccepibili, e una maestria tecnica strepitosa.

 

Credo però che abbia avuto il trionfo che ha avuto per due altre ragioni. La prima è che è talmente ben spiegato, perfino con albero genealogico iniziale, da risultare a prova di idiota: è impossibile non capirlo (il che, per carità, non vuol dire che sia obbligatorio apprezzarlo). Ma, poiché siamo un po’ stufi di regie-quiz, benvenuta chiarezza. La seconda è che Michieletto e la sua squadra dimostrano qui che uno spettacolo “moderno” non deve essere necessariamente brutto da vedere. Anzi: emoziona la bellezza di certe immagini, gli angeli della morte con le loro ali nere, l’abito di Salome che si solleva trascinando verso l’alto una ragnatela di fili rosso sangue, la testa del Battista sospesa in aria come in Moreau, in contrasto con le solite rigorosissime scene di Paolo Fantin, pareti nere incorniciate dai neon (Fantineon!) su uno sfondo bianco che si apre sulle gozzoviglie dei cortigiani in smoking, che però si denudano istericamente nei momenti di maggior parossismo profetico e teologico. Insomma, una meraviglia.

 

In ogni caso, è anche una Salome da ascoltare. Axel Kober non replica le trasparenze e le alchimie coloristiche di Chailly, ma non è affatto un mero Kapellmeister come si diceva nel foyer, e come se ci fosse qualcosa di male, poi. Fa una direzione un po’ spiccia, tipo palla avanti e pedalare, ma non trascurata, anzi molto teatrale e piena di sottolineature delle squisitezze strumentali e anche di una certa cantabilità danzereccia che pure c’è, il solito virtuosismo di Strauss di portarti sul baratro del kitsch senza fartici cadere dentro.

 

Notevole la compagnia. Michael Volle è un Battista ancora autorevolissimo anche se attualmente un po’ “tirato” sull’acuto, Linda Watson un’Erodiade sempre esclamativa e furibonda (in questa reggia mai un attimo di relax!) e Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, Erode, un monumento all’isterismo tenorile più decadente: avesse solo un po’ più di volume, sarebbe perfetto. C’è perfino, cosa rara, un ottimo Narraboth, Sebastian Kohlhepp, che si suicida con un’overdose di tranquillanti. E lei? Per una volta la Scala non ci ha messo i suoi soliti dieci anni per accorgersi che c’è in giro una voce. Vida Mikneviciute ha il volume indispensabile per “passare” sempre l’orchestra, e in una sala non piccola e dall’acustica bizzarra. Il timbro non è sopraffino, con un certo vibrato che tuttavia, in un’epoca di Salome-fischietti, non disturba, e la resistenza è notevolissima. Soprattutto, è perfetta in scena come adolescente disturbata e disturbante, capace di calarsi in uno spettacolo così totalizzante con un’autorevolezza che sembra sì carismatica ma, diciamo così, per sottrazione. Alla fine di capricci omicidi, danze dei sette veli e perversioni necrofile varie ti trasmette, soprattutto, un senso di immensa pietà. L’opera “sta su” fino al 31; da non perdere, direi.

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