© Filarmonica della Scala | Andrea Veroni 

Star music!

Williams alla Scala fa impazzire un pubblico vero

Alberto Mattioli

La Filarmonica è galvanizzata e trasmette in maniera quasi fisica il piacere di suonare che prova. Musica legata ai film che accompagna, ma capace anche di vivere di vita propria. Dopo decenni di avanguardia, di sperimentazione, di diktat estetici o ideologici arriva il re delle colonne sonore e sbanca

Che seratona da leggenda, di quelle che si archiviano subito nel file mentale dei ricordi amati per trascorrere poi nel mito (“quella volta che…”), lunedì alla Scala. Per la stagione della Filarmonica arriva John Williams, ed è subito delirio. Cinque Oscar, 52 nomination (record fra i viventi, di più ne ottenne solo un de cuius come Walt Disney), infinite colonne sonore che sono diventate quella delle nostre vite, per film talmente famosi che li hanno visti anche i non cinefili e perfino noialtri cinefobi. E dunque, in programma, Hook, Cuori ribelli, Harry Potter, Schindler’s List, E.T., Superman, Indiana Jones e naturalmente Guerre stellari, e che la forza sia con noi. Profanazione del Tempio? Macché. Scala strapiena e pubblico ben diverso dai soliti semifreddi della Filarmonica: tanti fan del Nostro con t-shirt dedicate, tanti cinefili, tantissimi gggiovani, qualche smoking da Sant’Ambroeus in ritardo e molti jeans, poi Giorgio Moroder e la divinissima Anne-Sophie Mutter con un outfit che puoi permetterti soltanto se sei stata la violinista di Karajan. Purtroppo, nessuno si è presentato con il casco da Darth Vader come ci si aspettava. Però da giorni la portineria della Scala era assediata da biglietti e pupazzi e cd e programmi in attesa di autografo. E che entusiasmo, poi, fuori con i bagarini imperversanti (fino a 500 euro per un biglietto, constatato de visu, ma c’è chi se n’è sentito chiedere 800) e dentro con una standing ovation perenne, tutti in piedi al solo salire di Williams sul podio, e di nuovo dopo ogni brano in programma e i due fuori: selfie, applausi, ovazioni, urla e discorsetti plurimi del festeggiato, che ha anche l’accortezza di commuoversi o fingere di. Furore, insomma. In ogni caso, con tutto questo su e giù, mai fatta tanta ginnastica in teatro. 

 
Di certo, la forza è con lui. Williams è un novantenne vispissimo e simpaticissimo con la faccia di un Babbo Natale sornione il giusto, un musicista “totale” che, figlio di un percussionista della Cbs Orchestra, iniziò a suonare il pianoforte a sette anni e dopo ha fatto di tutto, e di più. Come direttore di sé stesso, non il massimo: il gesto non è chiarissimo e braccio sinistro o doppia il destro o serve appena a girare le pagine della partitura (sarà stato così anche Richard Strauss, che teorizzava che sul podio non si deve assolutamente sudare, e dopo che gli avevano diretto le opere metteva un dito sotto l’ascella dello sventurato e se la trovava pezzata borbottava: “Dilettante”?). Ma la Filarmonica è galvanizzata e trasmette in maniera quasi fisica il piacere di suonare che prova. Williams è un grandissimo compositore, che scrive in technicolor come i film e ha la capacità, propria solo di chi sa davvero raccontare in musica, di farci credere che a un personaggio o a una situazione possa adattarsi quel determinato brano, e soltanto quello. Era la dote dei sommi operisti, e si sa che è il cinema ad aver preso il posto dell’opera lirica come arte nazionalpop, prima di cederlo alla tivù. E allora una marcia può risultare spaccona e giubilatoria (Superman), sottilmente gaglioffa (primo, ironia: Indiana Jones), trionfale e minacciosa insieme (Star Wars, ovvio). Musica legata certo ai film che accompagna, ma capace anche di vivere di vita propria. 


Un trionfo, insomma, che non abbiamo mai visto uguale per un compositore vivente o per la musica contemporanea. Viene quindi il sospetto che forse il pubblico e le sue capacità di comprensione non siano una variabile indipendente, e che magari se si scrive musica sia bene tenere presente a qualcuno potrebbe far piacere ascoltarla. E considerando perfino il mercato, che in fin dei conti con Händel o Verdi funzionava piuttosto bene per stabilire gerarchie estetiche e imporre di relazionarsi con gli ascoltatori. Insomma, dopo decenni di avanguardia, di sperimentazione, di diktat estetici o ideologici o tutti e due insieme, di capolavori anche raggiunti ma più spesso mancati, arriva un Williams e sbanca. Una ragione ci sarà.

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