Di Victor Hugo, Public domain, via Wikimedia Commons 

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Il fastoso e lurido castello della trilogia di Gormenghast ribalta l'archetipo kafkiano

Edoardo Rialti

I tre volumi di Mervyn Peake ripubblicati da Adelphi raccontano del dialogo con la fortezza, insieme inesorabile e ridicola. Una prosa spigolosa e barocca che descrive "le merlature incerte, irregolari, diroccate"

Il Castello di Kafka è come un miraggio beffardo. Incombe sul villaggio e le osterie eppure nessuna strada, per quanto prossima, conduce veramente al suo portone o alle sue mura, che irradiano una vibrazione costante sulla vita tutta attorno. Come scrisse Calasso “certamente non è accaduto, come alcuni continuano a sostenere, che il religioso o il sacro o il divino siano stati sgretolati, dissolti, vanificati da un agente esterno… è accaduto invece che il religioso o il sacro o il divino, per un oscuro processo di osmosi, sono stati assorbiti e occultati in un qualcosa di alieno, che non ha più bisogno di nominarli perché è autosufficiente e si appaga di essere descritto come società”.

 

Ciò può essere espresso tanto con immagini esterne che interne, con l’esclusione o la reclusione. Tra il 1946 e il 1959 Mervyn Peake rivoltò come un guanto l’archetipo kafkiano nella trilogia di Gormenghast (ripubblicata da Adelphi in volume unico, nelle splendide, vittoriose traduzioni di Anna Ravano e Roberto Serrai), un maniero dal passato immemorabile che si è esteso e ramificato come una inconcepibile concrezione tumorale, e che nessuno dei suoi abitanti riesce più a percorrere da cima a fondo. Il dialogo col Castello è esplicito fin dalle prime battute. Di questo leggiamo che “le merlature incerte, irregolari, diroccate frastagliavano il cielo azzurro. Si sarebbe detto che un tetro abitatore, il quale, secondo giustizia, avrebbe dovuto restarsene confinato nella stanza più remota della casa, avesse sfondato il tetto e si fosse levato per mostrarsi al mondo”.

 

Ed ecco svettare, inesorabile e ridicola a un tempo stesso, la fortezza di Peake: “Sui tetti irregolari cadeva, col variare delle stagioni, l’ombra dei contrafforti smangiati dal tempo, delle torrette smozzicate o eccelse e, enorme fra tutte, l’ombra del Torrione delle Selci che, pezzato qua e là di edera nera, sorgeva dai pugni di pietrame nocchiuto come un dito mutilato puntando come una bestemmia verso il cielo”. L’immagine stessa di un castello-labirinto, fastoso e lurido, i cui signori e valletti compiono riti ammuffiti, tra calici scintillati e broccati divorati dalle tarme, zuppi di sudore e cipria, “dice” qualcosa che non può essere spiegato, o commentato con altre parole.

 

È la forza di ogni autentico mito, e quello di Peake è un grandioso mito contemporaneo, veicolato da una prosa sontuosa, spigolosa, barocca, ironica e spiazzante, che balza senza soluzione di continuità da commedie degli equivoci alla Lewis Carroll a tentati omicidi e incendi o a monologhi joyciani: “E sarà tenebra eterna e nessun altro colore e le luci si estingueranno e i rumori nel mio cervello soffocheranno nel piumaggio folto che attutisce ogni pensiero con un sudario di innumerevoli piume perché sono lì da sempre da sempre nella gola nel gelido cavo del Torrione e ci saranno per sempre perché non avranno mai fine i gufi di cui sono figlio i grandi gufi di cui sarò infante e discepolo sto già dimenticando ogni cosa sarò accolto nelle tenebre immemorabili lontano e il cuore non soffrirà più i sogni e i pensieri più nulla anche la memoria non sarà più mai più e i miei libri mi svaniranno dalla mente e i poeti cesseranno di esistere”.

 

Un banchetto di parole e immagini che ci si rigira in bocca come cioccolata e ferisce le mani come una cancellata arrugginita. Si vorrebbe che un simile incantesimo, una simile trappola non finissero mai. Circondato da zie rincretinite e vendicative, maggiordomi così rigidi da scricchiolare a ogni movimento, osceni cuochi sugnosi, contesse gigantesche, attorniate da un corteo spumoso di gatti bianchi, ecco improvvisamente nascere un bambino, Tito, l’erede dagli occhi viola, la prima autentica novità in questa Elsinore grottesca, la cui crescita e ribellione si intreccia e duella con la scalata fisica e psicologica dello sguattero Ferraguzzo, il quale con infinita scaltrezza, malizia e ammirevole determinazione assurge a gran visir delle cerimonie, puntando ancora più in alto. Il potere per elezione o per conquista, la lotta per sottrarsi a una vocazione insopportabile – e alla sua nostalgia – o per forgiarsene una. Tra queste scelte opposte ed estreme sta il mondo intero. “Non esiste un altrove, non farai che girare in tondo, Tito de’ Lamenti. Non esiste strada, non esiste sentiero che alla fine non ti riporterà a casa. tutto conduce a Gormenghast”. Come scrisse un ammirato C. S. Lewis, “prima di leggerlo non si era mai visto nulla di simile, ma dopo lo si vede dappertutto”.

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