Ci sono libri che sono mari, vastità nei quali stendersi alla luce sanguigna del tramonto e fare il morto, sostenuti da una forza infinitamente più grande, che sa fasciare e lavorare, nella quale dolori e gioie sono compresi in un abbraccio che ha il sentore dell’inevitabile. Non si tratta semplicemente della loro mole (sebbene pura essa abbia un ruolo nello stabilire l’andatura e la qualità d’un certo respiro) e la calma che infondono non ha niente di narcotico, possono scottare e tagliare a ogni pagina, eppure parificano i nostri grovigli, le estasi e le sconfitte col ritmo del mondo, come gli sbuffi dolceamari dei polmoni dopo un orgasmo. Per quanto mi riguarda, i primi nomi che vengono alla mente, pur così diversi, sono quelli Celine e Tolstoj, Shikibu, Proust e il Roth di Pastorale, ma la voce fondatrice resta sempre, ovviamente, quella di Omero stesso, che portai nuotando con un braccio alzato fino a dei massi più al largo, quand’ero ragazzino, per leggerlo sotto il sole, mentre Poseidone gorgogliava tutto intorno tra gli scogli. È un grande conforto perciò quando uno di questi mari si stende improvvisamente innanzi per la prima volta, o ci viene riconsegnato da una traduzione attesa: quanto finalmente offertoci dal lavoro ventennale di Nicola Crocetti (cui dobbiamo già tanto per la conoscenza della grande letteratura greca moderna in Italia) colma una lacuna storica e costituisce un grandioso passo avanti, un ampliamento e al tempo stesso un ritorno, che prende le mosse proprio dall’ultimo verso dell’Odissea.
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